giovedì 12 dicembre 2013

dove nietsche e marx si davano la mano


Dice la mia teacher dal bell'accento british «Domani qui sono previsti tafferugli». Ha detto proprio così, tafferugli. Perché gli stranieri che imparano l'italiano lo imparano da dio, sempre. Comunque, ciò vuol dire che, dopo la prova generale degli studenti di oggi, domani anche nel bdcdP ci saranno cacacazzo a protestare in ogni dove. Dice che si chiamano i forconi. Ora non so se il nome se lo sono dato loro o i giornalisti o qualche titolista che andava de prescia, fatto sta che 'sto nome, ai variopinti signori giovani e meno giovani che scendono in piazza, piace. E già lì, perdono mille punti. Perché per come la vedo io il forcone è solo una grossa forca, ché di campagna questi qui hanno visto solo quella acquisti sulla Gazzetta. Ci saranno dentro un sacco di persone oneste che si fanno il culo, che pagano fino all'ultimo centesimo di tasse, persone esasperate, disperate, che si sono rotte di un immobilismo fatto di pezze neanche tanto a colori, di spread e di mutande della lega (Cota chi?), di imu e di puttane, di tasse e cazzi a pompetta. Persone per cui Renzi ha l'appeal di un pianosequenza cecoslovacco muto di quattro ore. Ma nel mezzo ci sono gli ultrà (minchia, gira e fai deve sempre entrarci quel cazzo di pallone!), l'estrema destra e l'estremissima sinistra, quelli che non hanno mai letto un libro e pensano di riscaldarsi bruciandoli, tizi che girano tra le macchine in colonna a distribuire volantini e nessuno (per paura o scazzo) che scenda a saccagnarli. Gente (con qualche g) che punta a far fuori quel poco di democrazia che ancora finge di vivacchiare ma si trascina con la bombola d'ossigeno. In tutto ciò, il cartello apparso a Milano, «A piazzale Loreto c'è ancora posto», ha un che di surreale. Dopo Mussolini fu la Dc, dopo Craxi scioltadimmerda. Non voglio sapere cosa potrà esserci dopo.

mercoledì 11 dicembre 2013

belli grossi e capoccioni


Bravi, avete capito il titolo del post! Ammazza quanto siete perspicaci: oggi parliamo dell'ultimo (spero last but not least, come invece pare sia) film di Steven Soderbergh. Partiamo da qui: Dietro i candelabri, tratto da una storia verissima, è una delizia dal punto di vista tecnico. Seventies nei Seventies, Eighties negli Eighties. Chapeau (adesso torno a parlare italiano, no os preocupáis). E poi c'è un gruppo di attori che definire perfetto è dire poco: a me Matt Damon sta simpatico come quella ragade che ti sfastidia il sesso anale - per dire - eppure qui, nei panni di Scott Thorson, ha il suo perché. Michael Douglas è da Emmy (sì, perché il film è andato sulla Hbo, a quanto pare era troppo frocio per il cinema americano, gesussanto!) nel ruolo di Liberace, in quel periodo entertainer e pianista di talento (uh, come mi viene in mente Carmelo Bene quando parlava della differenza tra talento e genio!). E vogliamo parlare di un eccelso Rob Lowe, sorta di Freddie Mercury cinese tanto è tirato per l'occasione? Ah, dimenticavo, c'è anche un grande Dan Aykroyd. Taciamo di Debbie Reynolds (a proposito, ma quanti anni ha?)? Ma manco per niente. Parliamo dei dialoghi? Io a «Sembro mio padre in Piano piano dolce Carlotta» mi sono ribaltato, unico al cinema, ma era una battuta troppo colta per il pubblico intorno. Insomma, una delizia. Certo sul finale si perde un po': l'Aids uccide, anche i migliori copioni, probabilmente. Però merita. Cazzo se merita.

martedì 10 dicembre 2013

there's danger on the edge of town


Se qualcuno mi avesse detto «vedrai un film con Jonah Hill, Seth Rogen, Michael Cera e Jay Baruchel che ti piacerà», col tatto che mi contraddistingue l’avrei mandato a cacare. E invece tocca ricredermi: This is the end (fanculo il titolo italiano), primo lungometraggio di Evan Goldberg e Seth Rogen (che nonostante ciò continuo a non reggere), è un’adorabile cazzatona fieramente irriverente e molto molto divertente. L’idea degli attori che interpretano se stessi, prendendosi per il culo ed esagerando difetti veri o presunti, è la chiave che permette al film di elevarsi dalla media anche nei momenti più grevi. James Franco ormai per me è un mito e comincio a pensare mi faccia anche un discreto sesso; non quanto Emma Watson, comunque, la cui partecipazione peraltro regala una delle parti più divertenti della pellicola. A dispetto dello spiegamento di effetti più o meno speciali, l’apocalisse è una mera scusa, tanto che il finale (a parte il cameo di Channing Tatum) regge fino a un certo punto: resta un po’ il dubbio che Kevin Smith l’avrebbe fatto meglio.

lunedì 9 dicembre 2013

se è cinico deve essere il belgio


Ma quante soddisfazioni dà la cinematografia di quel piccolo sputo di nazione incastonato tra Francia, Olanda, Germania e Lussemburgo? Quasi quanto le sue birre. Il problema è che, se qualche birra bene o male arriva, i loro film da queste parti spesso rimangono sconosciuti. Au nom du fils, poi, è pressoché improbabile che esca in Italia. Il film di Vincent Lannoo è uno dei tre che mi hanno fatto gridare yeppa al Torino Film Festival: una commedia nera in cui si riesce a sghignazzare di cose terribili come chiesa e pedofilia, una satira cruda e spietata che vede protagonista una donna (Astrid Whettnall) che, dopo la morte del marito e il suicidio del figlio, scopre che il primo si allenava alla guerra santa contro i musulmani, l'altro era stato abbandonato dal prete che lo aveva circuito. Svalvola (o forse no) e comincia a uccidere tutti i sacerdoti coinvolti in questioni torbide in una escalation degna di Tarantino. Ci si diverte un sacco, alla faccia del politicamente corretto.

venerdì 6 dicembre 2013

nostalgia de menasse


Dici: ma tu non sei snob? No, comunque all'invito al Tamarrata day, partito dal mitico Frank Manila e spalmato su ormai due settimane, non potevo mancare. A modo mio, perché qui, toglietevi il cappello e sciacquatevi la bocca, parliamo di mr Walter Hill. Uno che ha fatto film memorabili e spesso ignorati, uno che mancava dal grande schermo da undici anni, da quell'invisibile, magnifico cult che era Undisputed. Il ritorno era un'occasione ghiotta perché, diciamocelo, Sly mi è sempre stato un po' sul cazzo, ma è anche uno che, servito da un buon copione, fa la sua porca figura. Ecco, qua cominciano i guai. Perché Jimmy Bobo-Bullet to the head (per una volta mollo lì la polemica sui titoli italiani, questo è stato scelto democraticamente e varrebbe la pena stenderci un plaid pietoso...) è un filmetto che, sebbene girato come si deve, resta un filmetto. Stallone, killer di vecchia scuola con figlia tatuatrice bona (Sarah Shahi), decide di farsi giustizia insieme (o malgrado) un poliziotto asiatico ingenuo e fissato con internet (Sung Kang) contro il cattivissimo (e non è il solo) Christian Slater. Indovinate come finisce? Ecco, esatto. E non si può neanche dire, come ho letto da qualche parte, che sia un omaggio a certo cinema anni Ottanta: la violenza è meno caricaturale, più diretta. E poi le tecniche di ripresa, ahimè, appartengono di più ai giorni nostri, con tutti quegli insopportabili flash che sembra sempre ci sia qualcuno che scatta le foto. Un'ora e mezza scorrevole, ma Hill ci ha abituato a perle di cui qui c'è solo qualche traccia sbiadita: non bastano il riscatto dei perdenti e le atmosfere livide e notturne di New Orleans e New York.


Ed ecco, di seguito, tutti i blogger della partita:

26/11 - Movies Maniac
30/11 - WhiteRussian

giovedì 5 dicembre 2013

la delusione è nell'imbottitura


Se penso a Carlo Mazzacurati mi viene in mente Notte italiana, prima produzione Moretti, Marco Messeri protagonista con Giulia Boschi (ma che fine ha fatto?). Poi penso alle emozioni de Il toro, e io e L. che balliamo sotto i portici di mamma Bologna scimmiottando una delle scene più belle. Infine mi viene in mente «Adele chi?» de La passione, imperfetto ma interessante esperimento di quasi metacinema. Ora, la cosa strana non è che abbia potuto tirar dentro millemila dei tanti attori sulla piazza (Albanese, Balasso, Battiston, Bentivoglio, Citran, Orlando, la Ricciarelli, giusto per dirne un po') per fare una comparsata ciascuno in La sedia della felicità: quella si chiama amicizia. Quello che è davvero incomprensibile è come Mazzacurati sia riuscito a ricavare un film così... anemico. Un pallido, pallidissimo remake de Il mistero delle dodici sedie di Mel Brooks (già remake dell'ultimo sgarrupato film della povera Sharon Tate, a sua volta tratto da un vecchio romanzo russo), privo di nerbo, dove si ride poco e non mancano sciatterie e incongruenze (va bene che è una commedia, ma esageruma nen!). Per non parlare dell'orribile orso finto del finale con un po' troppa montagna... Valerio Mastandrea e Isabella Ragonese funzionano, ma non bastano a tener su un baraccone così appuntato con gli spilli. Uscita non ancora prevista, se proprio siete curiosi.

martedì 3 dicembre 2013

vincitore morale, soprattutto morale


È il segreto di Pulcinella, ma lo ripeto per i distratti: sono un ragazzo del '69. A metterci il carico, sono un ragazzo del '69 nato a Palermo. Pif mi piaceva in tv, aveva una cifra diversa, una marcia in più. Mi preoccupava abbastanza il suo primo film, temevo non ce l'avrebbe fatta. Quando ho scoperto che la sceneggiatura l'aveva scritta a quattro mani con un Neri Parenti boy (Marco Martani), la preoccupazione è aumentata. Poi mi sono rilassato, e una mattina, al Tff, ho visto La mafia uccide solo d'estate. Ora, N., la sorella di Tiz (come chi è Tiz?), mi è testimone: è stata un'esperienza devastante. E non in senso negativo, perché il film, a dispetto della presenza della Capotondi, funziona e molto. Ma perché l'infanzia/adolescenza/maturità del protagonista è la mia. Perché quegli anni a Palermo in cui era quasi normalità un morto al giorno, anche quasi sotto casa (Chinnici di fronte casa di mia nonna, Giuliano di fronte casa della mia amica S., per non parlare del covo di Riina a 200 metri dalla mia), quegli anni in cui a scuola, nei momenti di noia, contavamo le sirene della polizia, per non parlare di quel '92 in cui scavalcammo i muri della cattedrale per assistere a un funerale inutilmente blindato, li ho vissuti in pieno anch'io. E la cifra di Pif, la sua scelta di una commedia surreale che si mescola e si trasforma continuamente in un reportage fedele di quel periodo, mi ha conquistato. Andate a vederlo, cazzo.

lunedì 2 dicembre 2013

per quello che ne so, il complesso di edipo non è una band


Oh, sapevatelo, il Torino Film Festival è finito. Peccato, eh, perché al 36esimo film in otto giorni, per quello che mi riguarda, viene voglia del numero 37. Detto ciò, brevissimo bilancio: di film memorabili ne ho visti due, e ve ne parlerò. Belli, qualcuno. Molti, troppi, carini. Come il vincitore. Si tratta del messicano Club sandwich, opera prima di Fernando Eimbcke. Che sarebbe stato un ottimo cortometraggio, ma 82 minuti sono davvero troppi. Tirare per un'ora e venti la storia di questo adolescente pingue e segaiolo (Lucio Giménez Cacho), in vacanza con la mamma bona (Maria Renée Prudencio) in un albergo deserto fuori stagione finché non arriva la paciarotta Danae Reynaud, un po' più scafata e pronta a darsi senza problemi, è un po' uno sforzo inutile. Attori bravi, dialoghi e situazioni spesso divertenti, ma lungaggini francamente inutili. Ritenti, sarà più fortunato.

domenica 24 novembre 2013

cuore di babbo


Primo film in concorso al Tff, Le démantèlement, che, come ha detto in modo rapido e folgorante la Tiz (come chi è?), è né più né meno che Le vendeur (opera prima dello stesso regista canadese, Sébastien Pilote, vista a Torino credo due anni fa), soltanto senza neve. Anche qui un uomo al tramonto, in crisi col lavoro, che cerca di salvare il culo ai figli. Lì un venditore, qui un contadino. E così, come per Le vendeur, non si può dire che sia un brutto film, anche grazie alle interpretazioni convincenti di Gabriel Arcand, Sophie Desmarais e Lucie Laurier. Il problema è che le quasi due ore sembrano quattro, c'è troppa campagna, il ritmo è inutilmente dilatato e, anche laddove il film potrebbe appassionare, coinvolgere, emozionare, finisce per irritare. Peccato.
 

sabato 23 novembre 2013

wrong cops


Vi siete preoccupati che parlassi del nuovo film di quello sciagurato di Quentin Dupieux, eh? No, qui parliamo di Drogówka, film polacco campione d’incassi in patria, da qualcuno incautamente paragonato ai polar ma in realtà piuttosto diverso. Una carampana in fila dietro di me per il film successivo (che non sono riuscito a vedere, porca troia) sosteneva che c’è troppa violenza e troppo sesso. Mah. Un po’ di violenza sì. Ma la presenza di un cospicuo numero di puttane non fa sesso. Detto ciò, nel bel mezzo di un’orgia tra le squillo di cui sopra e un tot di politici polacchi e italiani grassi, pelosi e sudati che farebbero schifo a un piede (cit.), uno degli autoctoni dice a uno dei nostri: “È come il vostro bunga bunga”. Che, voglio dire, è sempre bello fare figure di merda all’estero… Ma veniamo al film: poliziesco di buona fattura, molto amaro ma che strappa qualche risata, con eccesso di riprese con telecamerina a mano ma ottimi interpreti. La trama non è il massimo dell’originalità (piccole e grandi corruzioni all’interno di un dipartimento di polizia stradale con omicidio che scoperchia di tutto e di più), ma la pellicola di Wojciech Smarzowski merita la visione.

venerdì 22 novembre 2013

siete caldi?


Pronto per il Torino Film Festival? Sono nato pronto (cit.). Voglia? Massimo livello. Biglietto treno, settimanale metro, abbonamento film? Eccoli. Portatile con chiavetta? Celo. Valigia con cambi vari? Celo. Recupero Internazionale vecchi? Celo. Cibi in scadenza? Nello zaino. Programma dettagliato con stampa allegata delle cose da non perdere? Sta lì da una settimana. Carica cellulare? Speruma bin. Modalità dieta piadina? Attivata. Modalità Matrix per spostamenti veloci? Lunga esperienza. Tolleranza neve? Neve? cos'è? Tolleranza pioggia? Che il cappuccio sia con me. Tolleranza commenti in fila? Modalità iPod. Pazienza? Occazzo, lo sapevo che avevo dimenticato qualcosa!
 

mercoledì 20 novembre 2013

in fila per cinque/9


Ma che davero abbiamo finito? Come passa il tempo quando ci si diverte! Ok, manca il 2013, ma come si fa? Troppo vicino e troppi film che mancano all’appello. Quindi amen, si parte con l’ultimo giro di giostra.

2009 – Moon
Folgorante esordio alla regia di Duncan Jones, figlio di David Bowie. Come scrissi all’epoca, sono sicuro che sia Ziggy Stardust sia Thomas Jerome Newton sono stati orgogliosi di lui. Fantascienza da camera, low budget come si usava negli anni Settanta (Jones, classe 1971, è cresciuto con cose tipo Atmosfera zero, quanto lo capisco!), per una traduzione popolare di tematiche alte: insomma, Solaris e 2001 che si sposano con una levità davvero rara. Sam Rockwell, praticamente l’unico protagonista, è molto bravo, Kevin Spacey dà la voce originale al computer. Io e la ms ci andammo pazzi.

2010 - Angèle e Tony
Il piccolo film di Alix Delaporte è stata una grandissima sorpresa. Non sappiamo cos'ha fatto (e cosa hanno fatto ad) Angèle (una meravigliosa Clotilde Hesme), non sappiamo cosa sia successo a Tony (perfetto Grégory Gadebois): si sa solo che sono due persone incapaci di amare. Nel mezzo, lo sbando di una comunità di pescatori in crisi della Normandia. Angèle e Tony si incontrano, si annusano, si conoscono. E quella che doveva essere una pezza nella vita di Angèle diventa amore. Sai la novità? Ho tanto pianto.



2011 – This must be the place
Si esce dalla visione con la testa, le orecchie, il cuore pieni. Certo, Paolo Sorrentino deve tanto alla visione dei Coen e di Lynch, ci sono scene di raccordo che non sarebbero state perdonate a Muccino, il film si fonda quasi tutto su uno Sean Penn in stato di grazia, ma nulla è lasciato al caso, l'estetica non è quasi mai calligrafica e si arriva alla fine notevolmente appagati. Ah, ho pianto alla scena in cui il protagonista si sfoga con David Byrne e tira fuori tutto quello che fino a quel momento avevamo solo intuito. Ai tempi, all'interpretazione del finale ho dedicato un post a parte, addirittura.

2012 - Reality
Il film di Matteo Garrone lo vidi in colpevole ritardo. Massì, aspettiamo, tanto lo tengono... E così mi toccò il dvd. Eppure trattasi di filmone, quanto e più di Gomorra. Perché se il film tratto dal libro di Roberto Saviano racconta un pezzo del nostro paese, Reality lo racconta tutto. E chi dice che sia un film sul Grande fratello (tra l'altro, nell'anno in cui la trasmissione fu interrotta) non ha capito un cazzo. Aniello Arena, con quella mimica da Totò steroideo, è un protagonista esordiente meraviglioso. La sua maschera tragica e dolente ci accompagna fino alla (perfetta) sequenza di chiusura parlando di tanti, troppi di noi.

Ed ecco, infine, tutte le puntate precedenti:

1969-1973
1989-1993

martedì 19 novembre 2013

la città è uno sputo (anche il film, però)


Ok, il cinema, quello vero, muore. Le sale si spengono. A guardare la prima sequenza di The canyons viene voglia di toccarsi: non per l’eccitazione, per la sfiga. E dunque, se il cinema con la c maiuscola muore, è colpa di chi lo fa, che asseconda le (capienti) pance dei cazzoni da multiplex. Partendo da questo assunto, Paul Schrader, grande sceneggiatore e buon (a volte ottimo) regista, stavolta si è impantanato insieme a Bret Easton Ellis in un film brutto e noioso che finisce per scontentare pressoché tutti. Una pellicola che non decolla mai, neanche sulla svolta thriller, che sembra diretta da un Brian De Palma sedato e convertito al calvinismo. Lo scandalo non è Lindsay Lohan mezza ignuda (mi fa sesso quanto un comò di compensato), sono casomai le sue mutande ascellari. E lo scandalo non è neanche James Deen, per una volta fuori dal porno: non è il primo, non sarà l’ultimo, eppure solo quelli dotati di autoironia (Tracy Lords, Ron Jeremy) sono riusciti a lasciare qualcosa, per quanto piccola, nel mainstream. La storia è patetica: un girotondo di ossessioni che gronda moralismo (in verità sempre presente in Schrader, ma cazzo qui ci si annega!), con attori cani che interpretano personaggi tagliati con l’accetta, annoiati, perennemente connessi, dediti allo scambio di coppia quindi (ussignur che palle!) perversi. Sbadiglio.

lunedì 18 novembre 2013

uomini che non capiscono le donne che capiscono gli uomini


Dunque, giovedì l’idea era quella di andare a vedere Venere in pelliccia tutti insieme appassionatamente, io, la ms, poison e la bionda. Ma problemi di parcheggio hanno fatto scacare la serata a metà (nel senso che poison e la bionda hanno visto il film, io e la ms no). Domenica, colpiti da una benevola botta di culo, abbiamo parcheggiato vicino al cinema ma, diretti alla cassa, abbiamo scoperto che i posti per le 18 erano esauriti. Bello, eh, anche perché era esaurita anche la sala di Giovane e bella, neanche fosse di e con Checcozzalone. Morale: alle 20, finalmente, eravamo davanti al nuovo film di Roman Polanski. Cinema low cost e a chilometro zero: come e più di Carnage, si tratta di teatro filmato (la pièce è di David Ives) e filmato in un teatro. Due soli protagonisti: Mathieu Amalric, conciato come il Polanski di qualche decennio fa, è un regista teatrale che, dopo una giornata inutile alla ricerca della protagonista di una rivisitazione dell’opera di Sacher-Masoch, vorrebbe solo tornare a casa; Emmanuelle Seigner (brava e gnocca oltre ogni dire) è l’attrice dall’apparenza cagna che gli si presenta all’improvviso. Da qui in avanti 95 minuti di ribaltamenti di situazioni, dialoghi divertenti, giochini cerebrali, in un crescendo di bravura e rimescolamento di parti e verità (?) da cui non resta che farsi travolgere. Finale annunciato, amaro e beffardo al punto giusto. Non un capolavoro, ma una storia su cui meditare.

giovedì 14 novembre 2013

lesson two


L’insegnante non è di quelle che vengono a casa o che ballano al mare con tutta la classe, ed è un peccato; ha qualcosa di Joanna Lumley o di un’altra attrice inglese del passato che non so, ride e fa ridere e due ore e mezza volano improvvise. La mia compagna di banco è la più brava della classe e sembra molto più ragazzina di quel che è. Quello a cui avranno detto mille volte che somiglia a George Clooney, se tira la pancia in dentro e non sfodera le esse piemontesi, forse ce la può fare. Il suo amico dai capelli lunghi si sente molto fico ma avrebbe bisogno di uno shampoo. La simpatica signora alternativa è la più vecchia del gruppo e sta da vent’anni con un marito che ha sposato dopo tre mesi che si sono conosciuti. Poi c’è la versione giovane e un po’ truzza dei fidanzatini di Peynet: se non si fanno fuori a vicenda in preda a un raptus, potrebbero sposarsi domani. Gli altri, non pervenuti. Sono tornato a studiare inglese. Un po’ perché mi spiace non alzare il telefono quando il numero sul display ha troppi zeri all’inizio, un po’ perché a Berlino una lingua alternativa all’italiano mi servirà. Sì iu sun.

mercoledì 13 novembre 2013

in fila per cinque/8


Penultimo appuntamento con i film della vita. Anno dopo anno ci avviciniamo all’oggi, ma devo dire che, contrariamente a quanto mi aspettassi, le ultime scelte sono quasi più facili delle prime. Ah, stavolta un fil rouge non c’è neanche a pagarlo.

2004 - Se mi lasci ti cancello
Vabbè, visto che non possiamo buttare la chiave della galera in cui sono dovrebbero essere rinchiusi certi titolisti, sorvoliamo sull’abominevole traduzione dell’intraducibile Eternal sunshine of the spotless mind. Il film di Michel Gondry, scritto da Charlie Kaufman, è una meravigliosa storia d’amore. Punto. Cos’altro serve sapere? Ci sono Jim Carrey e Kate Winslet che decidono di cancellare il ricordo l’uno dell’altra, c’è un’idea geniale su cui ruota tutto, c’è un finale che non puoi non piangere, c’è Kirsten Dunst con il suo solito bel paio di tette in versione infermiera fumata. Oscar per la miglior sceneggiatura originale.

2005 - A history of violence
Unico Cronenberg della selezione? Già, ma sapeste quanti sono stati lì lì per entrare! Vabbè. Tratto da un fumetto di John Wagner e Vince Locke, il film è... una storia di violenza, esattamente quello. In cui Viggo Mortensen, bravo padre di famiglia (con diligenza, credo) nonché rispettato cittadino, diventa pure eroe locale per aver sventato un tentativo di rapina. Peccato che da quel punto in poi emergono tutti i suoi scheletri nell’armadio e che l’amabile omettone sia in realtà un killer mafioso che s’è rifatto una vita in un bdc americano. Thriller tesissimo, da vedere insieme a La promessa dell’assassino, altro titolo notevole della coppia Cronenberg-Mortensen.

2006 - The prestige
L’ho già detto che mi piacciono i film con i maghi? Sì, l’ho detto qua. Eppure questo film qui me l’ero perso senza troppi rimpianti e recuperato in dvd solo un annetto dopo. Piciu! Perché merita. Intanto la regia è di Christopher Nolan, vivaddio in vacanza dal cavaliere oscuro, così oscuro che io mi ci assopisco facilmente. Qui la storia è di quelle divertenti e avventurose che farebbe la gioia di un bambino degli anni Settanta in un sano pomeriggio di cinema parrocchiale. Il cast comprende Christian Bale, Michael Caine, i due bonazzi Hugh Jackman e Scarlett Johansson. Delizioso (vero, poison?), il cameo di David Bowie.

2007 - Io non sono qui
Me lo dico da solo: una delle scelte più anomale di tutto l’elenco. Todd Haynes, quello di Safe, Velvet goldmine e Lontano dal paradiso, filma questa assurda, incredibile, non-biografia quasi autorizzata di Bob Dylan, nella quale a interpretare il cantante nelle sue varie fasi, artistiche e private, si cimentano il piccolo Marcus Carl Franklin, Christian Bale, Richard Gere, Heath Ledger, Ben Whishaw e, soprattutto, la migliore: Cate Blanchett. Completano il cast Charlotte Gainsbourg, Michelle Williams e l'immancabile Julianne Moore. Uno strano mélange quasi psichedelico che conquista. Se non si conosce Dylan non si capiranno alcuni passaggi, ma poco importa.

2008 – Il divo
Volendo fare il giochino dei critici stipendiati, se La grande bellezza è La dolce vita di Paolo Sorrentino, Il divo è il suo Todo modo. Più allegro, certo, meno funereo, ma non meno satirico e spietato. Vita e miracoli non solo del gobbo malefico (un Toni Servillo immenso), ma di tutta una classe dirigente da paura (una sfilza di caratteristi meravigliosi tra i quali emerge Carlo Buccirosso nei panni di Cirino Pomicino). Una storia così lontana così vicina, raccontata con ironia beffarda, surrealtà e paradossi che avrebbero fatto felice Elio Petri, cui Sorrentino deve evidentemente tantissimo. Da proiettare nelle scuole.

Ritardatariiii, qui ci sono le puntate precedenti:

1969-1973
1989-1993

martedì 12 novembre 2013

poi però esci e vuoi bere


Lo so che anche quel comunista di papa Francesco ormai è contro il proselitismo, ma io non lo ascolto e diffondo il verbo: ragazzi, andate a vedere Zoran, il mio nipote scemo. Perché mica capita tutti i giorni di vedere una commedia (non solo) italiana, cinica e cattiva al punto giusto, senza vergognarsi di ghignare dall’inizio alla fine (al coro delle risate si univano felicemente anche quelle sofistichate della ms e di poison...). E poi il film d’esordio di Matteo Oleotto è proprio fatto bene, e strizza l’occhio, ma senza scimmiottarlo, a certo indie americano o, meglio ancora, nordeuropeo. Certo, è stato fatto su misura per Battiston (e si vede), il quale finalmente riesce ad avere un ruolo da bastardo che finora aveva potuto declinare solo a teatro, ma non è solo la presenza del grosso grasso attore friulano a fare la differenza. Le idee: tante, e tutte messe a frutto. I dialoghi, e te l’ho detto prima che ci si schianta dalle risate. Un lavoro di casting con i controcazzi, dai ruoli principali (Zoran, autistico o forse no, è il sorprendente Rok Presnikar) ai tanti caratteristi (dal “solito” Teco Celio all’eterna promessa degli anni Ottanta Roberto Citran fino all’adorabile ragazzina Doina Komissarov). Persino l’irrinunciabile happy end non rinuncia a essere beffardo. A trovargli un difetto, qualche piccola lungaggine qua e là.

lunedì 11 novembre 2013

buon compleanno mr tripe


Ok, il titolo è cattivo, ma il film in questione è davvero una malaminchiata (grazie wordreference!). Nel 1995, Leonardo DiCaprio e Tobey Maguire sono già amici, si sono conosciuti due anni prima sul set di Voglia di ricominciare: DiCaprio ha già fatto il botto con diversi film, Maguire è ancora uno sconosciuto. R.D. Robb, attore tv alla sua prima e unica prova registica, li convince chissà come a girare Don’s plum, una commedia molto indie in bianconero. Commedia destinata “all’autoconsumo”, a quanto pare, almeno finché Robb non trova chi glielo distribuisce. Battaglia legale per impedirlo da parte di Maguire con l’appoggio di DiCaprio: il film negli Usa è invisibile (se non hai internet), in Europa esce (?) nel 2001 incassando credo un centinaio di euro... Ma cos’ha di così compromettente Don’s plum? Niente, è solo brutto. È una versione sgradevole di Friends, dove al posto del Central Perk c’è il locale che dà il titolo al film. I protagonisti hanno tutti problemi seri: qualcuno con le droghe (Maguire, a giudicare dalle espressioni), quasi tutti col sesso (il massimo è la ragazza che, mentre cerca di farsi limonare dalla sua amica, fa una piazzata al tipo che non gli ha detto di essere bisessuale). DiCaprio ha la summa di tutte le turbe: è un fascistello con drammi familiari col quale non si riesce a solidarizzare mai, neanche per sbaglio. Divertenti i siparietti davanti allo specchio del cesso, ma giusto quelli. In mano a Kevin Smith, forse, sarebbe venuto fuori qualcosa di davvero dissacrante o divertente, qui c’è solo da tirarsi mazzate sulle gonadi.


Questa recensione è dedicata a Leonardo DiCaprio, festeggiato nel giorno del suo compleanno anche da tutta questa gente qui:

Cooking Movies
Director's Cult
Ho Voglia di Cinema
La fabbrica dei sogni
Life Functions Terminated
Movies Maniac
Pensieri Cannibali
Recensioni Ribelli
Solaris
Scrivenny 2.0

mercoledì 6 novembre 2013

in fila per cinque/7


Per dirla con il povero Lucio Dalla, con un salto siamo nel Duemila. Non so se ci siamo arrivati in fila (per cinque) o in modo diverso, ma so che questo lotto di film della vita un leitmotiv ce l’ha: le lacrime. Oh, quanti pianti, signora mia. Sempre, anche a rivederli cento volte, almeno una scena, almeno un momento.

1999 - Il sesto senso
Ecco, qui io comincio a piangere quando Bruce Willis capisce che è morto (non vale come spoiler, lo sanno tutti ormai!) e non smetto fino a dopo i titoli di coda. È stato così la prima volta che l’ho visto, in tv con la DRFM, è stato così le volte successive. Primo film importante di M. Night Shyamalan e suo capolavoro insuperato, sceneggiatura di ferro (gelido) con finale che ti lascia di stucco, inquietantissimo Haley Joel vedolagentemorta Osment. Certo è un peccato che il regista di origini indiane abbia deciso di ritirarsi così giovane, dopo il pur validissimo The village...

2000 - In the mood for love
Qualcuno potrebbe dire: toh, il primo film comprensibile di Wong Kar-wai. Io dico: ammmore. Assoluto, certo un po' casto che fa incazzare, ma quando Su Li-Zhen (Maggie Cheung) e Chow Mo-Wan (Tony Leung Chiu-Wai) scoprono che i loro rispettivi partner se la intendono e piano, senza volerlo, con una fisicità che è fatta di sguardi accennati, si rendono conto di piacersi, la cosa è di un erotismo inaspettato, un piacere folgorante per lo spettatore, come scoprire una nuova zona erogena. Nonostante sia più che casto, In the mood for love è una delle storie d'amore più belle che siano state scritte, e io piango sempre alla scena dell'albero. Colonna sonora e costumi bellissimi. Premio per la miglior interpretazione maschile a Cannes.

2001 - A.I.
Il ricordo dell’ultima visione è piuttosto recente. Credo fossimo a Lanzarote, la ms è in camera e ha sete, scendo a prenderle qualcosa al bar. E nella tv del bar David sta morendo, bloccato nell’anfibicottero: è la parte più straziante di uno dei più ambiziosi e meravigliosi film di Steven Spielberg dopo Incontri ravvicinati del terzo tipo. E io piango. Mi dico «Vabbè, dai, è quasi finito, ne guardo ancora un pezzetto». E piango. Come dite, l’ho già scritto? Il progetto originario è di Stanley Kubrick, Haley Joel vedolagentemorta Osment è il piccolo robot che sogna di essere un bambino vero con una mamma vera, Jude Law è un androide anche nella vita, secondo me.

2002 - La 25ª ora
Amo Spike Lee. Tutto, dalle commedie ai drammi, tranne Miracolo a Sant’Anna. Molti suoi film sono arrivati a un soffio dall’entrare in questa classifica, ma ho scelto La 25ª ora perché questa è la selezione che passa dal cuore, e al cuore, signora mia, non si comanda. Qui c’è Edward Norton, che come è fico lui quando fa lo sfigato non ce n’è, spacciatore che il giorno dopo verrà chiuso in galera per sette anni. La fidanzata è Rosario Dawson. E uno dei suoi migliori amici è Philip Seymour Hoffman, prof che sogna di infilarsi nelle mutande di una sua allieva. E poi c’è New York, e per la prima volta, vista dall’alto, la voragine del World Trade Center. Sono l’unico che piange alla scena dello specchio e poi per tutto il finale?

2003 - Mystic River
Capolavoro. Punto. Clint Eastwood ai vertici della sua carriera registica. Una storia da accapponare la pelle, una sceneggiatura eccellente. Dialoghi che fanno male, pugni nello stomaco come se piovesse. Un trio di attori formidabili che rispondono ai nomi di Sean Penn, Tim Robbins, Kevin Bacon. E vuoi non piangere disperato all’ultima scena, quella della parata, con quegli sguardi, quello scambio muto che sottende che tutto è finito, che l’amicizia non è più possibile, che quello che si era incrinato 25 anni prima adesso è in frantumi? Due Oscar e due Golden Globe.

Per rinfrescarvi le idee...
1989-1993

martedì 5 novembre 2013

31


Dunque: i Coen, Kevin Kline che sembra suo nonno, Elijah Wood che deve suonare per non farsi ammazzare, una commedia politica prodotta da Kim Ki-duk, eros e thanatos giapponese, Robert Redford quasi muto, un documentario su Battiato, l’anteprima del nuovo Mazzacurati, l’ultimo James Gandolfini, il nuovo del regista de Il calamaro e la balena, i vampiri di Jarmusch, il remake americano di Á annan veg, un noir indiano, 8 e ½, Armando Crispino, Bela Tarr e il miglior cinema americano anni Settanta. Giusto per dirne un po’. Ci vediamo al Torino Film Festival dal 22 al 30 novembre. Anche con lui.


lunedì 4 novembre 2013

sweet home chicago


http://lafabricadeisogni.blogspot.it/2013/11/the-fabulous-80s-special-raccolta-link.htmlNon sono uno che ama particolarmente gli anni Ottanta, anzi. In primis perché per colpa dei tanti baby pensionati di allora io non smetterò di lavorare mai, e poi perché mi ricordano la mia orribile adolescenza per niente inquieta. Detto ciò, l’amica Arwen (quella che vorrebbe sposarmi anche se è povera...) ha ideato questa iniziativa qui e io ho aderito sub... sì, insomma ho aderito. E il primo film che mi è venuto in mente, ma proprio il primo, prima di Blade runner o di Toro scatenato o C’era una volta in America, è stato una commedia, piccola, neanche di troppo successo da queste parti. In un periodo di inutili commediole e commediacce adolescenziali, oscillanti tra il becero e lo stracciamaroni, Una pazza giornata di vacanza (Ferris Bueller's day off, 1986) spicca per essere qualcosa di completamente diverso. Sceneggiatura (scritta in una settimana) e regia sono di quelle solide, lineari, di un John Hughes (buonanima) nel suo periodo migliore. Protagonista-mattatore Matthew Broderick, che con questo film smette di starmi sul cazzo e che qualche anno dopo (Election, 1999) avrebbe finito per somigliarmi almeno fino al 2000. È lui Ferris Bueller, il compagnone che tutti avremmo voluto avere (o essere) al liceo, che decide di marinare la scuola con la sua ragazza (Mia Sara) e il suo migliore amico depresso e frustrato (Alan Ruck) e andarsene in giro tutto il giorno con la Ferrari del padre di quest’ultimo per le strade di Chicago. La parte iniziale e la scena del museo sono memorabili, Jeffrey Jones è perfetto come preside odioso, Charlie Sheen appare in un cameo, la colonna sonora ricorda che gli anni Ottanta non sono stati solo fuffa.

giovedì 31 ottobre 2013

e allora zitti zitti


Dopo The artist, pensi, son tutti bravi a battere il ferro finché è caldo, a scopiazzare. Poi, sei al Tff 2012 e trovi ben due film muti, diversissimi tra loro e tanto diversi da quello di Hazanavicius: da entrambi ti aspettavi sbadigli e lamate, di entrambi di ricrederai. Vabbuò, tutto ciò per dire che oggi, incredibile ma vero, uno dei due film (dell’altro vi parlerò probabilmente il prossimo venerdì a proposito degli inediti del Tff) esce in Italia: si tratta di Blancanieves e, no, non è un film per bambini, anche se il soggetto si ispira alla celebre favola dei fratelli Grimm. Pablo Berger, già regista del simpatico Torremolinos 73, qui mostra ben altre ambizioni, raccontando con la giusta dose di ironia la storia di Carmen, gnocca torera e figlia di torero, vessata dalla matrigna che tenta anche di ucciderla e, ovviamente, salvata da sette nani anch’essi matadores. Se The artist è in fondo un film anni Trenta a cui è stato tolto il sonoro, Blancanieves è un’operazione molto più “credibile” e raffinata che omaggia tutto l’omaggiabile del cinema muto anni Venti, dal mainstream al surrealismo. Macarena García, tanta tv e tanti musical, da muta è una rivelazione; Maribel Verdú interpreta la matrigna, Ángela Molina la nonna.

mercoledì 30 ottobre 2013

in fila per cinque/6


Incredibile ma vero, siamo arrivati alle soglie del 2000 (dio santo, il bello del nuovo secolo è che nessuno adesso può più usare quella cazzo di espressione). Dopo una scelta onestamente meno faticosa rispetto alla settimana scorsa, i miei film dell’anno sono questi qua:

1994 - Ed Wood
Il film della coppia Tim Burton-Johnny Depp che più amo. La storia romanzata del peggior regista di tutti i tempi (giudizio troppo severo, a ben guardare certa roba che circola nelle sale) è un omaggio al cinema come passione, al di là di tutto, persino del talento. Accanto a Depp, un magistrale Martin Landau che ottenne l’Oscar e un altro botto di premi per la sua interpretazione di Bela Lugosi; inoltre Bill Murray, Sarah Jessica Parker, Patricia Arquette e Vincent D'Onofrio nei panni di Orson Welles. Ricostruzione impeccabile, curatissima fotografia in bianco e nero.



1995 - Prima dell'alba
Una delle migliori storie d’amore scritte per il cinema. Richard Linklater, incostante quanto interessante sperimentatore, realizza il suo miglior film con una storia semplicissima, così semplice che in altre mani sarebbe diventata banale: un incontro casuale in treno che si trasforma in storia d'amore, o forse no. Dialoghi perfetti, a volte improvvisati o modificati in corso d’opera, Ethan Hawke gran fico, Julie Delpy adorabile. Colonna sonora da non sottovalutare. Secondo capitolo tecnicamente più intrigante, ma il primo resta insuperato. S’intende che sono in attesa spasmodica di vedere (esce domani e io lo aspetto da una vita) l'ultima parte della trilogia. Premio per la regia a Berlino.


1996 - Fargo
Rivisto di recente con grande goduria mia e della ms. Cosa mi piace di questo film dei fratelli Coen? Intanto che è dei fratelli Coen, di cui l’unico indigesto mi resta Crocevia della morte (per tacere dello script di Gambit...). E poi il cast: Frances McDormand incintissima, i “soliti” pazzeschi William H. Macy, Steve Buscemi, Peter Stormare, la neve. Sì, perché è protagonista pure lei, insieme alla desolata provincia americana dove, di solito, non succede una cippa di niente e invece. La scena del tritalegna è celebre, ma quella del vecchio compagno di scuola giapponese mi ha sempre fatto morire. Palma d’Oro per la regia e due Oscar per la Dormand e la sceneggiatura.

1997 - Tempesta di ghiaccio
Eh eh, questo se lo ricorda qualcuno? Ang Lee, che era arrivato a Hollywood facendo il botto con Ragione e sentimento, con questo film fu sostanzialmente ignorato (se non massacrato), colpevole di avere sputato sul piatto offertogli: ma come, noi ti diamo l’Oscar e tu, brutto muso giallo, l’anno dopo ci distruggi il mito americano? Eppure si tratta senz’altro della sua opera migliore. La storia, ambientata nei giorni del Watergate, è quella di due coppie borghesi tentate dallo scambismo, mentre i figli più o meno adolescenti sono abbastanza lasciati a loro stessi. Cast notevole: Kevin Kline, Joan Allen, Sigourney Weaver, Christina Ricci, Elijah Wood, Tobey Maguire, Katie Holmes.

1998 - The Truman Show
Lo ammetto: se non lo avessi rivisto poco meno di un anno fa, forse il film di Peter Weir non farebbe parte di questa lista. Non perché all’epoca non mi fosse piaciuto, ma perché maturando (vabbè, piantatela di ridere!) ne ho colto sfumature che probabilmente mi erano sfuggite. Una storia immensa, a tratti geniale, spesso struggente, consapevolmente ambiziosa. Jim Carrey, al suo primo ruolo drammatico, è perfetto. Buona la prova di Ed Harris, sebbene caricato di tic e orpelli stia un po’ sull’orlo della caricatura. Musiche (e comparsata) di Philip Glass. Ignorato agli Oscar, vincitore di tre Golden Globe.

Puntate precedenti:

1969-1973
1989-1993

martedì 29 ottobre 2013

se il tuo occhio ti avesse dato scandalo, ora dovresti essere cieco


Cominciamo da qui: se La vita di Adele (che sarebbe Adèle, ma è stata italianizzata anche nel doppiaggio e non si sa perché) avesse raccontato una storia d’amore etero, forse oggi staremmo ancora a cercarne il torrent su internet. Davvero pensate che un film drammatico di 180 minuti, che ricorda parecchio certo cinema serio francese che andava di moda 20-25 anni fa, avrebbe trovato spazio persino nei multisala tra una scorreggia e una pistolettata? Secondo: fermo restando che le due protagoniste (Léa Seydoux e Adèle Exarchopoulos) oltre a essere molto brave fanno indiscutibilmente sangue e che le scene di sesso (tre, piazzate più o meno a metà pellicola) sono abbastanza realistiche, dov’è l’indugiare sui corpi di cui ho letto quasi ovunque? Abdellatif Kechiche indugia, è vero, ma sugli occhi, le bocche, i nasi, persino sulle lacrime che si confondono nel moccio. Se c’è pornografia è lì, è nel claustrofobico concentrato spazio dei primi o primissimi piani che costituiscono gran parte del film. Lo scandalo non esiste e, ancora una volta, si dimostra che ci sono addetti stampa che sfruculiano il cattolico che è in voi e critici che non scopano o che scopano male. Comunque. Il film è bello, tanto. Coinvolge emoziona, fa incazzare. L’ultima parte, quella più amara e disperata, è la più riuscita: l’incontro al bar e la scena finale meritano da soli il prezzo del biglietto. A trovargli un difetto: certi personaggi a un certo punto escono di scena e non se ne sa più nulla, come se fossero di troppo, in quelle inquadrature così strette.

venerdì 25 ottobre 2013

e poi lo snob sono io?


Ci sono film che hanno destini strani. Robe che ti pieghi dalle risate mentre li vedi e t’immagini non avranno alcun problema non dico a uscire in Italia (che, vabbè, si sa come non-funziona), ma che sicuramente saranno destinati al successo in patria. E invece... Parlo di Imogene, visto al Tff dell’anno scorso, che intanto Imogene non è più. Ora si chiama Girl most likely, ha avuto un’uscita americana limitata quest’estate e una distribuzione a capocchia strabica nel resto del mondo. Ed è un vero peccato, perché si tratta di una buona commedia, spassosa e mai banale, dal ritmo sostenuto. Kristen Wiig, imminente protagonista del probabilmente inutile remake di Sogni proibiti (ah se spero di sbagliarmi!), qui è una autrice teatrale figadilegno che s’è guadagnata con le unghie e con i denti il suo status upper class. Mollata dal fidanzato, finge un tentato suicidio cui però credono tutti: si ritrova così sola come un cane e perdipiù costretta a tornare a casa della madre (una formidabile Annette Bening in un ruolo ancora più sciroccato di quello interpretato in Ruby Sparks). Completano il quadro un fratello tenerone e disadattato, un gran fico di inquilino (il Darren Criss di Glee) che punta a scoparsela, e Matt Dillon, in grandissimo spolvero, nuovo compagno della madre che si finge (o forse lo è) agente della Cia. Finale prevedibile ma mica tanto, matte risate per buona parte dei 103 minuti. La regia è di Robert Pulcini e Shari Springer Berman, pe’ capisse quelli di American splendor e Cinema verite, qui col cervello beatamente in vacanza ma non per questo meritevoli del massacro che è stato loro riservato dalla critica.

mercoledì 23 ottobre 2013

in fila per cinque/5


Per dirla con i Neri per Caso, quando c’è sentimento non c’è mai pentimento: al quinto appuntamento di questa rubrica (in fondo trovate i link alle puntate precedenti), la mia cinquina di oggi parla tanto, tanto d’ammmore. Ancora grazie a Frank Manila per l’ideona.

1989 - Harry, ti presento Sally
Anche stavolta mi cito, ne scrissi un annetto fa. Ricordo che il film mi entrò in circolo lentamente. Uscii convinto che fosse finita lì, ridacchiando per qualche battuta, ma la notte stessa mi rinvennero come dolcissima peperonata certi dialoghi, certe situazioni, la geometrica perfezione dell’impianto, quella levità mai sciatta o banale, la gnocchezza e la faccia da tolla di Meg Ryan. Come se non bastasse, il film di Rob Reiner (sceneggiatura della povera Nora Ephron) ha contribuito notevolmente alla mia educazione sentimentale insieme a Io e Annie e Pensavo fosse amore invece era un calesse.


1990 - Ho affittato un killer
Mi ero innamorato di Aki Kaurismäki l’anno prima con Leningrad cowboys go America, ma se lì si ghigna, qui viene fuori l’anima più malinconica, seppure divertente e divertita, del regista finlandese. La storia di Jean-Pierre Léaud (scelta paracula da e per cinephile, d’accordo, ma quanto è bravo?!?), sfigatissimo disoccupato causa Thatcher che non riesce a suicidarsi e ingaggia un killer malato terminale per farsi ammazzare, è una sorta di versione spassosa e surreale de Le tribolazioni di un cinese in Cina di Jules Verne. Prefinale bellissimo, cameo e canzone di chiusura di Joe Strummer.


1991 - Paura d’amare
Titolo banalotto di Frankie and Johnny, sottovalutato film di Garry Marshall che, fresco del successo di Pretty woman, non riuscirà mai più a bissarlo. Eppure Michelle Pfeiffer e Al Pacino proletari, lei cameriera lui cuoco ex galeotto, sono assolutamente credibili. Lei bella come il sole anche struccata e coi capelli pisciati, lui paraculo come sempre. Lei con il freno a mano tirato, lui totalmente perso. Scopano, litigano, si innamorano, fanno pace, non necessariamente in quest’ordine. E io ricordo di essermi fatto un po’ di pianti, non perché il film sia lacrimoso, ma perché sono un po’ piciu.



1992 - Heimat 2 - Cronaca di una giovinezza
Nel mio periodo da cineclub, un’amica mi portò a vedere la prima parte di questo film-fiume composto da 13 capitoli e diretto dall’allora sconosciuto Edgar Reitz. Pensavo sarei schiantato dopo dieci minuti, e invece divenne l’appuntamento fisso del martedì. Noi lì in sala, sempre più o meno le stesse persone, partecipavamo di quello che accadeva sullo schermo più o meno come in Nuovo cinema Paradiso e, delle vicissitudini di Hermann, Clarissa, Ansgar, Helga, nella Monaco a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, finimmo per parlare come dal parrucchiere si ciancia di Beautiful.

1993 - L’età dell’innocenza
Dal bellissimo romanzo di Edith Wharton (che però ho letto una dozzina d’anni dopo), ambientato nella irriconoscibile New York di fine Ottocento, Martin Scorsese trae non il suo film migliore, ma di sicuro la sua opera più insolita. Ancora Michelle Pfeiffer, sempre bellissima e triste, ma stavolta nei panni aristocratici di una contessa in fuga dal marito violento da cui vuole divorziare. Scandalo per tutti, ovviamente, anche perché la donna nel frattempo si innamora di Daniel Day-Lewis, promesso sposo della scialba cugina di lei (Winona Ryder). Un solo Oscar, per i costumi realizzati da Gabriella Pescucci.

E per i più distratti:

1969-1973

lunedì 21 ottobre 2013

buona domenica


Diretto verso Gravity, in metrò faccio prove tecniche di spostamenti in vista del Tff. Forse trent’anni in due, davanti a me, a sinistra giacchetta di pelle, corti capelli agitati, una parla parla parla; a destra l’altra, look ed espressione da educanda, ascolta ascolta ascolta. Ogni tanto fa domande sbagliate («Se parli greco antico in Grecia ti capiscono?»), ma la ragazza saputa non glielo fa pesare, sorride, le parla di quanto preferirebbe studiare arabo o cinese piuttosto che il latino («Se è una lingua morta ci sarà un motivo?»), percula le esclamazioni della Lucia manzoniana, racconta di Bologna come fosse una meta esotica. L’altra pende dalle sue labbra, vinta, conquistata. Cattivissimo me, di cui stanno per vedere il seguito, diventa argomento comune, forse. A sinistra si ride di gusto, a destra c’è giusto una piega delle labbra, sebbene goduta. Il problema della metro è che è troppo veloce.

venerdì 18 ottobre 2013

l’ex cattivo tenente


In attesa della nuova edizione del Torino Film Festival (22-30 novembre), mi è venuto in mente di recuperare cinque titoli colpevolmente persi o non recensiti durante le edizioni precedenti e rimasti inediti in Italia. Cinque film, cinque settimane, tutti i venerdì. Ce la farò? Vabbuò, si comincia con Small town murder songs, film canadese del 2010, opera seconda del molto promettente Ed Gass-Donnelly, che invece tre anni dopo si sarebbe schiantato con il sequel de L’ultimo esorcismo. Protagonista un eccellente Peter Stormare, nei panni di un poliziotto dal passato violento, che vive in un paesello disperato dell’Ontario e cerca di redimersi anche attraverso la religione e la compagnia di una noiosa fidanzata conosciuta in chiesa. Tutto bene (?) finché non viene uccisa una ragazza e il principale sospettato è il nuovo, orrido compagno della sua ex, cui Stormare non può avvicinarsi perché glielo impedisce un provvedimento restrittivo dall’ultima volta che ha pestato selvaggiamente qualcuno sotto i suoi occhi. Se vi aspettate azione, lasciate perdere. Se vi aspettate i Coen (come ha scritto qualcuno), riguardate Fargo. Ma non pensiate neanche che ci si martelli le gonadi con la religione in stile Abel Ferrara: questo gelido, breve ma intenso, thriller dove si va per sottrazione, si regge soprattutto sulle spalle, immense, di Stormare. E poi ci sono una sceneggiatura scarna ma efficace, le canzoni dei Bruce Peninsula che contraddistinguono ogni singola scena, una galleria di personaggi meravigliosi nella loro disperazione.

mercoledì 16 ottobre 2013

in fila per quattro/4


Maddai? Ebbene sì, si continua con i migliori film dal 1969 a oggi secondo me (qui, qui, e qui le puntate precedenti). Cosa resterà di questi anni Ottanta? Scoprivatelo.

1984 – C'era una volta in America
Visto che ne ho parlato l’anno scorso, mi cito addosso. Io ’sto film lo conosco quasi a memoria: la scena della charlotte russa con panna, quella di lui che spia lei da ragazzini e poi la lettura del Cantico dei cantici con una Jennifer Connelly mai più così bella, la morte di Dominic («Noodles, sono inciampato»), la cena romantica che finisce con una violenza interminabile che vorresti dire basta, cazzo, non lo capisci che così è finito tutto?, e poi il confronto finale tra Noodles e Max... meraviglia assoluta. De Niro immenso, Sergio Leone purtroppo alla sua ultima regia.


1985 - La messa è finita
Forse il più bel film di Nanni Moretti, di sicuro il migliore tra i suoi drammatici. La storia di don Giulio, che torna nella sua città dopo un periodo da missionario e scopre lo sfacelo delle idee e dei sentimenti in famiglia come tra i vecchi amici, fra adulteri, ipocrisie, aridità d’animo e finte conversioni, è di quelle da pugno nello stomaco. La scena dell’aggressione nella fontana mi ha sempre fatto stare un gran male. Nel cast, tra gli altri, un Vincenzo Salemme incredibilmente impeccabile nel ruolo del brigatista. Orso d’argento a Berlino.


1986 - Hannah e le sue sorelle
Non c’è due senza tre: ancora Woody Allen. Che ci volete fare? Io lo amo in tutte le sue fasi. Beh, quasi tutte, insomma. La storia è corale, ma come si fa a non solidarizzare con Mickey/Allen, ipocondriaco che prova tutte le religioni e infine, guardando La guerra lampo dei fratelli Marx, capisce che il vero significato della vita è spassarsela finché dura? Cast pazzesco: oltre all’immancabile Mia Farrow, Michael Caine (bravissimo), Barbara Hershey (ma quanto era sexy?!?), Dianne Wiest, Max von Sydow, Carrie Fisher. Tre Oscar.

1987 - Il cielo sopra Berlino
Il mio primo Wim Wenders e, che mi ricordi, il mio primo film tedesco contemporaneo (gli espressionisti, invece, li ho masticati fin da bambino, giuro). Da un soggetto potenzialmente letale, un film poetico ed emozionante. La sequenza iniziale, lo sguardo dolente di Bruno Ganz, Peter Falk ex angelo nei panni di se stesso, le musiche di Nick Cave, la povera Solveig Dommartin che volteggia sul trapezio. Berlino e Potsdamer Platz come non sono più, in attesa di scoprirlo di persona, a febbraio, al festival. Mi piscio già addosso dall’emozione...




1988 – D.o.a. - Cadavere in arrivo
E qui vi voglio, o miei implumi. Quanti conoscono questo piccolo gioiellino, remake di un thriller del 1949? Rocky Morton e Annabel Jankel, la coppia che aveva conquistato il mondo con Max Headroom e che qualche anno dopo si sarebbe suicidata artisticamente con Super Mario Bros., dirige questo giallo dal ritmo frenetico con Dennis Quaid nel suo periodo divistico, Meg Ryan ancora preplastica e l’immortale Charlotte Rampling. La corsa contro il tempo del professor Cornell per non morire avvelenato entro 24 ore e dimostrare la sua innocenza dall'accusa di duplice omicidio è di quelle che tengono incollati allo schermo.