sabato 29 giugno 2013

ira funesta


Ve lo dico subito: James Marsh è il regista di un paio di fichissimi documentari (tipo Man on wire) che ahimè non ho visto. Smettete di picchiarmi? Li vedrò. Per intanto, sappiate che ho visto il suo ultimo film e (gnegnegnegnegne) pure in anteprima, diversi mesi fa al Tff. Si tratta di Shadow dancer, che è uscito giovedì scorso con l’originalissimo titolo italiano di Doppio gioco, proprio come altri quattro o cinque film prima di lui, per non parlare del telefilm porco dei miei vent’anni. Perché non ne ho parlato prima? Perché non sapevo bene cosa scrivere. Non perché sia brutto ma perché, dopo una partenza col botto (ops, che battutaccia!), il film si ammoscia un po’, sbandicchia sul finale e a tratti sembra solo buona fiction tv. Andrea Riseborough, nel suo coloratissimo impermeabile che spicca nel grigiume dell’Irlanda dilaniata dagli attentati, è una terrorista come del resto tutta la sua famiglia: quando però viene beccata, è costretta a fare il doppio gioco (maddai, allora il titolo non è così minchione!) per non perdersi i futuri 25 anni del figlio... La poliziotta stronza è Gillian Anderson, il poliziotto buono (?), portatore sano di quella faccia da astigiano al mare, è Clive Owen. Da un romanzo di Tom Bradby, che da giornalista quel periodo l’ha vissuto in prima persona.

giovedì 27 giugno 2013

nel mondo rotondo che gira, che gira e che mai si fermerà


Io odio le multisala, però ne abbiamo una comoda a mezz’ora dal bdcdP la quale, a un orario strategico, programma ancora La grande bellezza. Programmerebbe, in realtà, visto che il lunedì e il mercoledì ha deciso che no. E noi quando siamo andati? Lunedì. Dunque niente Sorrentino. Dopo breve consulto, abbiamo ripiegato su Passioni e desideri. Finale a parte, alla ms è piaciuto; io ci ho rimuginato un po’ e poi ho capito che trattasi di buona occasione sprecata. 360 (questo il titolo originale; non commento per stanchezza e insofferenza ma, se c’è un inferno, mi piacerebbe che la pena per i titolisti italiani fosse essere chiamati per l’eternità con un nome che a loro fa cacare) sulla carta è molto interessante: regia dell’incostante quanto interessante Fernando Meirelles (quello di City of God), sceneggiatura di Peter Morgan (Frost/Nixon, Hereafter, insomma mica pizza e fichi...), cast ricco (Rachel Weisz, Jude Law, Anthony Hopkins...). In realtà il film parte tra Closer e Babel (l’idea ispiratrice è il Girotondo di Schnitzler) e finisce in stile commedia natalizia, con improbabili fughe, riscatti e happy end appiccicati con lo scotch. I dialoghi abbondano di stereotipi (alla terza donna che dice «Dobbiamo parlare» ho avuto un eczema), i personaggi maschili sono perlopiù babbidiminchia, tristi, ipocriti e falsi: si salvano Hopkins, per il cui monologo nell’ultima parte sembra costruito intorno tutto il film, e Ben Foster, nei panni di uno stupratore seriale appena uscito di galera e in preda a fantasmi e tentazioni. La colonna sonora è uno spettacolo.

mercoledì 26 giugno 2013

fuga a sud-est


Siamo tornati. Già da domenica all’alba se è per questo. Ché, per essere sicuri di svegliarci alle quattro del mattino, siamo giusto andati a letto all’una e mezza dopo una serata catanese fatta di solido teatro comico con due sempiterni leoni e la benedizione di Camilleri, ma anche di un po’ di struscio studiato dal tavolino del locale meno frequentato con una cameriera adorabilmente fuori di testa. Sull’aereo, in compenso, avrebbe potuto esserci un commando terroristico, non ce ne saremmo accorti tanto abbiamo dormito. Comunque, tutto questo per dire che avrei potuto scrivere un post già tre giorni fa, ma ho preferito commentare qua e là: i neuroni, per quello, servono meno. La testa, anche la pigmentazione, stavano ancora al mare. Catania, Ragusa, Vittoria, Modica, Porto Palo di Capo Passero, Noto, Siracusa, Catania. Uh, e Marzamemi, che non s’incula nessuno e invece è un posto davvero molto carino, dove tra l’altro ha sede questa ficata qui. Un momento di leggerissima follia in cui entriamo alla Collegiata di Catania canticchiando «Collegiata, collegiata/collegiata, linda collegiata/collegiata, no seas tan coqueta/collegiata al decirme que sí...». La facciotta di Montalbano in ogni dove. L’inaccessibilità delle spiagge nudiste direttamente proporzionale all’imbecillità degli italiani strillanti nel ridicolo carnevale dei costumi da bagno. E poi un autonoleggio che sembrava un suk, pranzo e cena con pesce a catafottere, e cioccolato, e ciliegie, e gelo di limone per aperitivo, e scale, tante scale, e discese ardite, e risalite, e gambe di legno e (a volte) cuore di stagno. Ah, la Smart non sarà mai la mia prossima macchina.

giovedì 13 giugno 2013

lui può darsi, io no


È incredibile come una persona simpatica, adorabile e solare come me possa nascondere nei più intimi anfratti del suo corpicino fiumi di intolleranza e laghi di incazzo. Peraltro gli schizzi arrivano lontano, soprattutto quando qualcosa o qualcuno mi delude. Tutto ciò per dire che è più o meno con questo spirito che sono uscito dalla visione di Solo Dio perdona. Il problema non è che il film sia lento o che ci sia troppa violenza o che Gosling dica quattro parole in croce: sono le stesse caratteristiche che mi avevano fatto amare Drive. Stavolta però Nicolas Winding Refn, con 'sta tragedia greca che usa il karaoke come coro, ha cannato veramente di brutto. È tutto così telefonato, dall’imperante complesso di Edipo al rosso cupo e al grigio-blu livido in cui è immerso il 90% delle scene, dalla sgradevolezza dei personaggi (Kristin Scott Thomas vestita da vecchia zoccola che parla di quanto è grosso il cazzo dei suoi figli chi vuoi che scandalizzi a parte le madaminchie della domenica pomeriggio?) al fatto che sappiamo bene che finirà tutto in vacca con grande spargimento di sudore, sangue e trippe (le lacrime, quelle, no). Anche l’ambientazione thailandese sembra più un paravento paraculo adatto a strizzare l’occhio agli appassionati di certo cinema orientale. Restano di buono il personaggio dello spietato poliziotto Chang e l’insopportabile quanto riuscitissima scena del ristorante in cui Ryan Gosling presenta a mammà la finta fidanzata.


mercoledì 12 giugno 2013

quel che resta del frigo


In attesa di elaborare il lutto Refn (ne parliamo domani?), anche oggi onoro con il mio contributo questo bel progetto qui. Tra le tante cose che la DRFM mi ha insegnato è che la storia che per cucinare ci voglia tempo, sempre e comunque, è una sonora stronzata, e che, in venti minuti, volendo si può preparare qualcosa di buono con ingredienti buoni. Anche quelli che stanno in fondo al frigo, la carta attaccata alle pareti (c’è qualcosa di gastronomicamente meno erotico?), l’aria un po’ (f)rigida e umidiccia del cibo dimenticato ma ancora commestibile. Poi però ci sono quei piatti nati per riciclare gli avanzi e che invece ormai richiedono un carrello dell’iper: tipo la pasta al forno, la mia versione, quella sicula, quasi gattopardesca, con dentro il mondo. Besciamella no, per carità di dio. Il sugo, quello poi, poco, giusto per colorare. Ché il tronfio trionfo di melanzane fritte, carne macinata di manzo e maiale, prosciutto, piselli, formaggio, pangrattato, uova sode e fresche, non può mica essere troppo coperto dal pomodoro...

martedì 11 giugno 2013

lo zen e l’arte della manutenzione del fritto


Questo post è il mio modesto contributo a questa iniziativa qui.

E. è cuoco. Cosa faccia dietro una scrivania, chissà. E da cuoco mi ha insegnato le tre regole dei fiori di zucca fritti: acqua frizzante quasi gelata, farina legata all’acqua alla bell’e meglio senza star lì a far melina, olio davvero bollente. Ecco, a me questa cosa del connubio tra caldissimo e freddissimo utile a dare il croccante, la storia che è inutile star lì a masturbare la pastella che non è mica maionese e basta che sia densa il giusto, mi sa tanto di aneddoto con una sua morale. Quale sia poi questa morale, però, non sono sicuro di saperlo.

domenica 9 giugno 2013

un sogno quasi americano in serbo


Ci sono film che aspetti per anni. Soprattutto quando sono di uno dei tuoi registi preferiti, hanno vinto l'Orso d'Argento a Berlino e non esistono ancora muli e torrenti, solo stupidi problemi di distribuzione. Poi quel film arriva in sala e, quando si riaccendono le luci, dici «Ah». Senza puntini di sospensione, punti interrogativi o esclamativi. Un «Ah» secco, con una punta d'amaro: praticamente un brut, ma con poche bolle. A distanza di una diciottina d'anni dalla sua prima visione, confermo quell'«Ah»: Arizona dream (anche conosciuto come Il valzer del pesce freccia), primo e finora unico film americano di Emir Kusturica, è un melodrammone lieve lieve, una favola senza lieto fine, una dolcissima e dolente incompiuta, l'elogio dell'imperfezione almeno quanto lo è del sogno, con l'ineluttabile certezza che, a dispetto di tutto, quella è l'unica cosa che ci salva, sia che vogliamo fare i pescatori in Alaska o guidare in macchina fino alla Luna o pilotare un aereo fatto in casa o rinascere tartarughe. I protagonisti sono tutti insoddisfatti, tutti anelanti – ma poi chissà se è vero – una vita diversa: da un Johnny Depp ancora ragazzino e già incredibilmente trentenne, a un redivivo, malinconico adorabile Jerry Lewis, più un parco di eccellenti attrici nonché gnocche d'ogni età: Faye Dunaway, Lili Taylor, ma anche l'allora attrice-mannequin Paulina Porizkova (a proposito, che fine ha fatto?). E adesso, lo so che si festeggia Johnny Depp, e che in questo film è davvero bravo, ma il migliore, qui, è (that's incredible! perché a me sta sul cazzo...) Vincent Gallo. Merito del personaggio, ma anche del suo talento: le parti in cui imita Al Pacino e Robert DeNiro sono fenomenali (a proposito, evitate la versione italiana). Sceneggiatura di David Atkins (Novocaine) e curiosa colonna sonora in cui Iggy Pop si sposa a ritmiche tipo Bregovic.


Vi chiederete (ve lo chiedete?): ma perché mai ho ripescato un film del 1992? Ma perché si festeggiano i cinquant'anni di mr Depp! Quindi mettetevi comodi e leggete anche i tributi degli altri cineblogger.

50/50 Thriller
Bette Davis Eyes
Bollalmanacco di cinema
Combinazione casuale
Criticissimamente
Director's cult
Era meglio il libro
Il Cinema spiccio
In central perk
Movies Maniac
Pensieri Cannibali
Recensioni ribelli
Scrivenny
The Obsidian Mirror
Triccotraccofobia
Viaggiando (meno)
White Russian Cinema


venerdì 7 giugno 2013

butterflies effect


Ma che bello. Lo ridico? Ma che bello. Certo poi t’incazzi che esca così ad mentula, oggi qui domani là, in modo che lo possano vedere solo quei quattro pazzi che al cinema vanno per rigenerarsi più che per passare due ore. Se capita dalle vostre parti, andate a vederlo ’sto Bellas mariposas, perché lo merita davvero. Salvatore Mereu è un regista alternativo suo malgrado: non fa pippe, fa cinema, ma di quel cinema che si vede poco e male, ché in questo piccolo paese è considerato più utile affollare gli schermi di Fasteffurius e Ceccherini da smontare dopo tre giorni. Tratta dal racconto di Sergio Atzeni, la storia è quella di una giornata-tipo di Caterina detta Cate (l’adorabile Sara Podda), una ragazzina che vive alla periferia di Cagliari all’interno di una famiglia allargata suo malgrado, un po’ di fratelli e sorelle di varia provenienza, una madre fintoinvalida che si fa un culo a capanna e un padre erotomane che non ha mai lavorato in vita sua. Giornata-tipo fino a un certo punto poi, perché il fratello malacarne vuole uccidere lo pseudofidanzato nerd di lei, colpevole di averlo ferito nel suo orgoglio di cazzo con il maschio intorno. Complice il cameo di Micaela Ramazzotti, il film ha una deriva fantastica che convince fino a un certo punto, ma ci si diverte, si riflette, ci si innamora dello sguardo di Cate e Luna (Maya Mulas) che spesso sfacciato si rivolge dritto in camera a parlare col pubblico, della loro adolescenza fresca e quasi impermeabile alle brutture che l’assediano. L’ho già detto bello?

giovedì 6 giugno 2013

il medio gatsby


Parafrasando il povero Paolo Valenti (come chi è?), «post impopolare anche questa settimana!». Beh, che mi piaccia Baz Luhrmann credo di averlo detto un po’ a tutti. Che mi sia piaciuto persino quel fantastico cartonato semovente che era Australia la dice lunga. Perché quello che a Baz viene proprio bene è questo: giocare con l’irrealtà, con la finzione più finta, fingendo di mostrartela più vera della verità (chiaro, no?). Tuttavia, saranno state le grandi aspettative, ma Il grande Gatsby mi ha un po’ deluso. E non per la trasposizione (non sono un fanatico di Fitzgerald ma mi pare che lo spirito del romanzo venga fuori molto bene), ma perché, alla fine, il "solito" repertorio di ricchi premi e cotillons del regista australiano, piazzato sistematicamente ad arte e amplificato da un 3d utile ma un po’ tronfio, finisce quasi a imbolsire una pellicola altrimenti fresca, frizzante e triste come il suo protagonista. Quando DiCaprio smetterà le mossette stile Brando-Welles sarà un gigante, adesso è solo un ottimo attore, perfetto a incarnare le inquietudini di un uomo che non riesce ad arrendersi al fatto che, a volte, un sogno sia poco più di un sogno. Carey Mulligan e Tobey Maguire sembrano più scelti per il physique du rôle (sono gli anni Venti, bellezza!), ma a me sono piaciuti.