giovedì 27 febbraio 2014

essere donna oggi


Insomma, mentre noi abbiamo una neoministra che sembra (?) cacata da un meeting di cl, al festival di Berlino c'è una sezione stile Sottodiciotto che affronta anche tematiche forti, importanti, “difficili” come dicono quelli che parlano male. Io, per esempio, mi sono innamorato di un piccolo film australiano (passato anche al Sundance) che dubito troverà mai un'uscita italiana e si intitola 52 tuesdays. È la storia di una ragazzina (pensate alla versione fica di Carey Mulligan...) che ogni martedì va a trovare sua madre. Madre che ha divorziato da un padre consenziente perché è lesbica e ha deciso di diventare uomo. La pellicola di Sophie Hyde (autrice di documentari, qui al suo primo lungometraggio di finzione), è suddivisa in capitoli (alcuni dei quali brevissimi) e racconta la trasformazione di entrambe le protagoniste: la prima da adolescente a donna, la seconda da cicciotta a pseudomacho. Divertente, commovente, ben costruito. 114 minuti da bere in 52 piccoli sorsi. Tilda Cobham-Hervey e Del Herbert-Jane sono eccezionali.

mercoledì 26 febbraio 2014

essi votano


I francesi sono sciovinisti dalle doppie punte alle unghie dei piedi. E forse fanno anche bene, chissà. Che i Cahiers du cinéma abbiano selezionato tra i dieci migliori film dell'anno La bataille de Solférino (che non è un film storico, nonostante una pigra madaminchia al Tff si aspettasse cannoni e baionette) è indicativo di come i cugini d'Oltralpe piscino spesso fuori dal vaso. Tuttavia, il film scritto e diretto dall'esordiente Justine Triet merita, e sarebbe un peccato se non uscisse in Italia. Si tratta di uno strano miscuglio fra dramma e commedia, con una seconda parte platealmente teatrale, ambientato durante le elezioni che avrebbero portato alla vittoria di Hollande (Solférino è la rue in cui si svolsero gran parte dei festeggiamenti). Interpretata da Laetitia Dosch e dall'orrido quanto onnipresente Vincent Macaigne (ne parlerò presto anche a proposito di 2 automnes 3 hivers), questa storia di coppia scoppiata con bambini contesi all'interno di una giornata così particolare, funziona, diverte, emoziona e fa incazzare, tutto nel giro di 94 minuti. Una bella sorpresa.

martedì 25 febbraio 2014

sola come una bestemmia


Il “mio” vincitore del festival di Berlino, altro che quella sòla cinese, era in effetti tra i favoriti per l’Orso d’Oro: poi si è dovuto accontentare del premio (meritatissimo) alla sceneggiatura e di quello della Fipresci. Ed è un peccato, perché un riconoscimento più importante forse aiuterebbe la distribuzione di questo piccolo grande gioiello. Parlo del tedesco Kreuzweg, un film durissimo, devastante ma davvero notevole, che si spera troverete sul torrente tra un mesetto, quando almeno in Germania uscirà ufficialmente. Diretto dallo sconosciuto (almeno da noi) Dietrich Brüggemann, che lo ha scritto insieme alla sorella Anna, racconta la storia della quattordicenne Maria (una bravissima Lea van Acken), succuba di una famiglia di integralisti cattolici convinti che il declino della Chiesa sia iniziato con il Concilio vaticano II, e che oscilla tra i normali desideri della sua età e un principio di pericoloso misticismo. Il suo crollo psicofisico, scandito in capitoli che richiamano le stazioni della via crucis (da cui il titolo), culminerà nell’autoimmolazione, nel tentativo di farsi morire di inedia purché Dio dia la voce al fratellino muto. La scena della visita medica è un coltello nello stomaco, ma è solo una delle più disturbanti.

lunedì 24 febbraio 2014

se dico cinema…


Mi sa che arrivo per ultimo, ma ci tenevo a partecipare all'iniziativa promossa da Valentina. Chi mi segue da un po' di tempo alcune cose le saprà, ma pazienza. Da dove comincio? Dall'inizio, via. Da King Kong del '33 visto in seconda serata (quindi all'epoca saranno state le 22), mio primo ricordo cinematografico in tv. E poi il musical del mercoledì su Raidue e il film del lunedì su Raiuno, un'istituzione, quello che da trent'anni ha la sigla di Lucio Dalla (se c'è ancora): ricordo una scena più che pudica, con Paul Newman e un'attrice che non so, seduti sul letto, e una censorea dissolvenza in nero tutta televisiva. Ricordo un bambino (io) che fece scappare terrorizzato i suoi dalla sala dove davano Jesus Christ Superstar, e mille altre domeniche pomeriggio in cui quel bambino, poi ragazzino, guardava quasi di tutto con i suoi, e spesso sceglieva lui. Ricordo i turbamenti con i trailer del dopo pranzo, tanta Fenech e non solo: a quell'età mi veniva duro persino con La febbre del sabato sera. Ricordo le tv private: i tanti horror anni Settanta e i film appena usciti al cinema, quelli che non potevo o non riuscivo a vedere, tutti i vietati e quelli che a Palermo non arrivavano o tenevano sì e no una settimana. Ricordo i baffetti di Vieri Razzini e le rassegne di Truffaut, Kubrick, Bergman su Raitre. E poi il doppio spettacolo porno del sabato notte su un paio di telescognite ma anche la selvaggia limonata davanti a quella noia di Sommersby. Ricordo l'emozione di Hitchcock e Arancia meccanica sul grande schermo, il cineclub “scomodo” di don P. con titoli come Silkwood, Agnese di Dio, Thérèse, la scoperta di Almodovar e Heimat 2 per 13 appuntamenti settimanali al cinema Aurora. Il resto, tra sale, muli, festival e torrenti, è storia di tutti i giorni. Potevo non innamorarmi del cinema?

sabato 22 febbraio 2014

malavoglia


Confesso: non avevo mai visto un film di Edoardo Winspeare. Del regista pugliese un po’ austriaco e un po’ inglese che, come certi cantanti di Sanremo, esiste praticamente solo ai festival, avevo quasi tutto nel defunto hard disk, lì, in attesa. Non era destino, evidentemente. Ma a Berlino non mi sono lasciato sfuggire In grazia di Dio. Che pare sia anche piaciuto alla critica. Vabbè, quella internazionale a cui piace tanto un’idea di Italia povera ma onesta tirata giù da chissà che cartolina. In verità in verità vi dico: mi sono annoiato. Le intenzioni sono più che buone, ma come pare abbia detto Mayer (non Sandro, Louis) «Se devo mandare un messaggio, scrivo un telegramma». La storia di Adele (Celeste Casciaro) e della sua famiglia, costretta a chiudere la piccola fabbrica e a ripiegare in campagna, dove scoprirà che un’altra vita è possibile, potrebbe funzionare se non scadesse nel retorico o nell’inverosimile (la figlia cretina e troia che diventa un piccolo genio a scuola dopo essere rimasta incinta), se non tirasse il tutto per 144 minuti, se non esibisse una religiosità quasi pornografica a cominciare dal titolo. Però gli attori pressoché sconosciuti, soprattutto la coppia di anziani innamorati, sono davvero bravi.

venerdì 21 febbraio 2014

shame on you (if you can't dance too)


Sotto Sanremo non potevo esimermi. Come i più vecchi di voi avranno capito dal titolo Seventies, qui oggi si parla di passioni musicali di cui ci si dovrebbe vergognare. Il condizionale è d’obbligo, perché sappiate che io, sotto sotto (lo so, mi ripeto), non mi vergogno manco per niente. Il giochino in questione, come già quello dedicato ai film, è un’idea di quel genio del male del Cannibale. Ordine alfabetico, così non si fa torto a nessuno.

Rubacchiando un'idea di Piero Ciampi, Fornaciari confeziona questa irresistibile canzoncina cattoerotica dal testo davvero penoso. La conosco a memoria. Tanto tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana, la dedicai anche a una che si mostrava senza darla. Almeno a me.



Imagination (Belouise Some) - 1985
Chi è della mia generazione se la ricorda bene. Non tanto la canzone, che tutto sommato ha il suo perché, ma per quella sega tamarra, quell'interminabile Dallas porno soft che era il suo video. Quanto durava? Una vita. C'è gente (non io) che veniva prima della fine.




‘O tiempo se ne va (Squallor) - 1983
Non sono un amante del gruppo partenopeo, a parte quelle cinque o sei canzoni. Però questa è stata la prima che ho sentito e l'ho subito adorata. Ricordo che ero in macchina con mio padre: scandalizzato, riuscì a cambiare stazione radio alla velocità della luce. Resta forse la loro hit migliore.

Da un'altra parte ho quasi scritto che sono molto legato a quei quattro, che hanno alle spalle alcune cose belle, tanta roba media e un bel tot di minchiate. Questa vorrebbe essere ironica ma alla fine è solo autoreferenziale. Io e la DRFM la cantavamo quando c'erano le levatacce.



Ramaya (Afric Simone) - 1975
«Ramaya bokuko ramaya abantu ramaya miranda tumbala...»: vabbè, ma se non conoscete le lingue ditelo! Un uomo, un genio: dal Mozambico alla Francia, quindi la Germania e l'Italia: con questa canzoncina impossibile guadagnò uno strafottio di soldi. Impossibile non ballarla.



Respectable (Mel and Kim) – 1987
La storia del duo è triste, con Mel che morirà di cancro tre anni dopo ad appena 23 anni. La canzone, invece, è un inno alla gioia, con quella risata grassa che a me faceva impazzire. E come non cantare, tutte le volte che lo shuffle ci inciampa, «Tay-tay-tay-tay-t-t-t-take or leave us...»?



Sei tu (Syria) - 1997
Depravazione su depravazione: quando apparve l'anno prima a Sanremo, quella ragazzetta coi denti messi un po' a minchia (poi li raddrizzò) a me faceva sesso. La canzoncina, partorita da quel mezzo genio di Claudio Mattone, è di quelle che ti entrano in testa. E ti bruciano un paio di neuroni.



Soli (Adriano Celentano) - 1979
Cosa mi lega a Celentano l'ho già scritto qui (notate, peraltro, la mia bellissima foto!). Ma Soli ha un testo cattoerotico che solo Cutugno poteva partorire. Non è certo in cima alle mie preferite del Molleggiato, ma quando mi scappa la canto, comprese le briciole nel letto.

Stiamo come stiamo (Loredana Bertè e Mia Martini) - 1993
Qui la questione non è nel testo, all'epoca sottovalutato. Il problema è la musica, è l'arrangiamento. Nel disco c'è qualcosa da pianobar di terz'ordine, con esagitate campionature da villaggio vacanze: un pastrocchio. La versione dal vivo a Sanremo, in compenso, è tremenda.



We are family (Sister Sledge) – 1979
«We are family / I got all my sisters with me / We are family / Get up everybody and sing (sing it to me)»: la famigghia versione discomusic è davvero tamarra, ma avete presente Kevin Kline con i Village People in In & out? Non riesco a non ballare. Anzi, batto anche le mani a tempo.

giovedì 20 febbraio 2014

the good son


Poiché questa, in un modo o nell'altro, è la settimana della musica (domani rivelo i miei dischi della vergogna, sapevatelo), oggi parlo di Nick Cave. Ho iniziato a conoscerlo pochi anni fa. E ho imparato ad amarlo leggendo il suo primo romanzo (se continua al ritmo di uno ogni vent’anni sono fottuto), poi il secondo, quindi le apparizioni al cinema… Insomma, le canzoni sono venute da ultime, ma sto recuperando. Chiaro che, quando a Berlino hanno proiettato un documentario a lui dedicato, mi sono fiondato in sala. Il rischio, come sempre, era l’eccessiva celebrazione. Ma 20,000 days on Earth, nonostante sia diretto da una coppia inglese (Iain Forsyth e Jane Pollard) che sembra uscita da La rivincita dei nerd, è un ottimo film che viene buono anche per chi non è molto pratico dell’artista. Con cui, tra l’altro ho scoperto di avere ben due cose in comune (chi ha detto “capelli”? screanzato!): l’amore per la letteratura trasmesso dal padre e il terrore di perdere la memoria. Nei 95 minuti c’è di tutto, anche (ma poche, in proporzione al resto) qualche canzone. L’artista australiano si rivela su più piani, persino quello tra il cazzaro e lo psicanalitico. E ci sono momenti, come quello in cui racconta del padre che gli legge Lolita o dello strano rapporto che lo lega a Kylie Minogue, in cui verrebbe voglia di incartarlo e di portarselo a casa (Tiz, buona! no, non si può, dicevo così per dire!).

mercoledì 19 febbraio 2014

non proprio un bicchiere di vino con un panino


Il 2 febbraio ci siamo giocati uno dei più grandi talenti del nuovo cinema americano. La morte è stupida di per sé, a 46 anni per overdose forse lo è anche di più. Il gruppo di blogger che di solito festeggia idealmente i compleanni, stavolta sceglie di dedicare un doveroso tributo a Philip Seymour Hoffman.


Io lo ricordo con Happiness (1998), a oggi ancora il film più geniale e disturbante di quel geniaccio di Todd Solondz, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs del 51º Festival di Cannes e vincitore in quell'occasione del premio Fipresci. Di felicità, a parte forse quella del ragazzino nella scena finale, ovviamente non c’è traccia. Le storie, a incastro, raccontano di uno psicologo pedofilo (l’elemento davvero più inquietante nella sua “normalità”), le sue due cognate che quando provano a cercarsi uno straccio d’uomo si ritrovano una con un ladro, l’altra con l’orrendo vicino di casa pornomane e voyeur (Seymour Hoffman), i genitori delle tre donne che hanno perso ogni piacere tra loro ma anche fuori dalla coppia, una vicina che ha fatto a pezzi il suo stupratore. Poche le star (il povero Ben Gazzara, Lara Flynn Boyle…), attori comunque tutti eccellenti. Durante la visione si ride perfino, ma si esce con un senso di malessere e di fastidio davvero lungo da metabolizzare. Film potentissimo, da vedere nella sua versione integrale. Interessante ma meno riuscito il seguito, Perdona e dimentica (2009), in cui tornano gli stessi personaggi ma interpretati da attori diversi.


martedì 18 febbraio 2014

esterno berlinese


Dice il mio amico F. che Berlino non è Germania, e se lo dice lui che è mezzo tedesco forse è vero. Certo la pulizia e l’ordine, in certe zone, si vedono poco. C’è l’intransigenza, sì. C’è un buon senso civico, naturalmente, a volte persino fuori luogo: come fai a ricostruire con precisione quattro file costituite ciascuna da almeno 50 persone nel momento in cui rientri dopo un falso allarme per il quale hanno fatto evacuare la biglietteria? E, infine, nella mia piccola esperienza ho sperimentato l’efficienza, nel settore pubblico come in quello privato. Eppure ho visto gente di tutte le età bere in metrò qualsiasi cosa a qualsiasi ora. E il secondo giorno, in un corridoio del metrò, un barbone mi ha spintonato piuttosto male: gli ho abbaiato vaffanculo in italiano e m’ha mollato, ma un po’ mi sono cacato sotto. Detto ciò, ma quanto era narciso Helmut Newton? E quanto è bella la fondazione che ne porta il nome? Pazzesco come quel po’ di muro che rimane sembri una roba quasi di cartongesso, se non fosse per l’anima di ferro che s’intravede. Adoro le architetture contemporanee che convivono con il Bauhaus. Fa effetto vedere Alexanderplatz, Potzdamerplatz e la zona dello zoo come sono adesso e com’erano nei film di trent’anni fa. E mi fa impazzire che non ci siano tornelli o controllori, eppure la gente il biglietto dei mezzi lo paga. Bisognerà tornare da viaggiatore assoluto. Presto.

lunedì 17 febbraio 2014

interno berlinese


Enorme. Mi sono sentito un po’ Totò e Peppino a Milano, ma senza colbacco, ché un febbraio così mite, mi dicono, non c’era da tempo. Però, insomma, abituato al Tff (che è sempre nel mio cuoricino, sappiatelo), qui mi sono trovato di fronte a millemila sale, anche distanti tra loro, e con una programmazione infinita. Certo, non ci si abbona. Su internet i biglietti sono pochi e, se non sai i trucchi, ti tocca fare almeno un’ora di coda. Però. Sòle poche, ma di quelle serie. Molti buoni film, alcuni molto molto buoni. Diciamolo subito, poi ne riparlerò nel dettaglio: il vincitore Bai ri yan huo non mi è piaciuto, mentre, tra i premi minori e collaterali ho amato Kreutzweg e 52 tuesdays. Non ho visto tutto quello che volevo ma, fatta la tara di quelli che hanno già una distribuzione, mi avanzano cinque-sei titoli da pescare nel torrente. Vip intravisti, pochi (io guardavo film, mica cotiche): Ken Loach, Gianni Amelio, Catherine Deneuve. Ho capito che il tappeto rosso mi attrarrebbe solo se io ne fossi protagonista. I buttadentro del Berlinale Palast sono giovanissimi e, tranne che per la benda, sono vestiti come Capitan Harlock. L’unica incazzatura è stata per la versione restaurata de Il gabinetto del dottor Caligari con la musica di John Zorn: organizzazione di merda, alcuni posti da schifo, ho litigato con la maschera in un inglese che come mi è venuto così bene è un mistero, introduzione di un quarto d’ora senza traduzione con due che, parafrasando Tarantino, «si sono fatti i pompini a vicenda». Vabbuò, quand’è che si rifà?

sabato 15 febbraio 2014

la vita, il sesso e le vacche


Prima sòla della Berlinale: Thou wast mild and lovely. Già il titolo poetico doveva dirla tutta, ma, si sa, io sono curioso come una scimmia. Il film della giovane americana indipendente Josephine Decker fa incazzare soprattutto per le immagini sfocate. Fanno schifo, diciamola tutta. Sono un escamotage del cazzo. Vecchio, tra l’altro. La storia, poi, è uno strano miscuglio che vorrebbe essere torbido ma spesso diventa risibile. Un giovane piciu vaccaro, sposato con una bella gnocca peraltro, va a lavorare d’estate in una fattoria dove padre e figlia hanno un rapporto discretamente ambiguo. Lei (Sophie Traub, piuttosto brava) è una sorta di bambina troppo cresciuta. Sarà tragedia pulp. Ma lo stile e il finale sono da suicidio. Amen. Ah, la locandina è orrenda.


venerdì 14 febbraio 2014

tra un manifesto e lo specchio


E insomma dispiace. Che poi avrà il suo pubblico, le madaminchie del sabato pomeriggio al Romano faranno la fila. Ma da un grande vecchio del cinema mondiale, oltre che francese, mi aspettavo di più, sebbene gli ultimi suoi film non siano stati ‘sta gran cosa. Parlo di Alain Resnais, che torna per l’ennesima volta a collaborare con il commediografo Alain Ayckbourn, Peccato che i tempi di Smoking/No smoking siano lontani, che di quella genialità che li vide complici, in questo Aimer, boire et chanter (tratto dalla pièce Life of Riley) non ci sia traccia. Mi piange il cuore a scriverlo, ma è come se il gruppo di ottimi attori (Sabine Azéma, André Dussollier, Hippolyte Girardot, tanto per citare i più famosi) si siano dati da fare per elevare un canovaccio da vaudeville in una messa in scena che vorrebbe essere sperimentale ma sa tanto di filodrammatica. Tutto è telefonatissimo, e non si ride. Almeno io non ho riso, anzi mi sono piuttosto annoiato.

giovedì 13 febbraio 2014

il cattivo sceriffo (con postilla funebre)


Mentre guardavo La voie de l'ennemi (o Two men in town o come cacchio si chiamerà), pensavo a quel vecchio articolo di Internazionale (e tiriamocela, va) sulla globalizzazione di certi autori. Ma poi mi sono detto fanculo, il problema non è quello. Rachid Bouchareb può benissimo fare un film ammerigano, ma deve metterci il suo stile. E invece qui il regista potrebbe essere chiunque, per esempio un Cronenberg stile History of violence ma non troppo ispirato. Liberamente tratta dal poliziesco francese anni Settanta Due contro la città, trasposta negli Usa e interpretata da Forest Whitaker e Harvey Keitel, la pellicola non merita i buh che gli sono stati attribuiti quando l’ho visto a Berlino, però è vero che lascia un po’ così. La storia dell’assassino che torna in libertà grazie alla buona condotta e alla fede in Allah, e che spinto dalla stronzaggine dello sceriffo e dalla cattiveria del mondo, fatica a trovare la quadra, poteva essere gestita molto meglio. Brutto proprio no, deludente sì.


P.S.: non c'entra nulla, ma mi è giunta notizia che è morto Freak Antoni. Che anche a me piacciono le sbarbine e, soprattutto, si sa, non sono un duro, mi commuovo anche al cine. Che la terra ti sia lieve, Roberto!

mercoledì 12 febbraio 2014

ragazzini corrono sui muri neri di città


Il primo pensiero, quando si spengono le luci, è «Vabbè, è in concorso perché è tedesco». Il primo pensiero, quando le luci si riaccendono, è «Occazzo, che colpo basso». Perché Jack è proprio un bel film, di quelli che a qualcuno (non io, stavolta) ha fatto venire i lucciconi. Non è da Orso d’Oro, forse anche il concorso è esagerato, ma si tratta di una pellicola molto valida. Diretti sapientemente da Edward Berger, Ivo Pietzcker e Georg Arms sono i magnifici bambini protagonisti di questa storia che, raccontata, non rende: sono figli di una madre sbandata, che si cura di loro ogni tanto, perché tanto il maggiore (Jack, appunto, 10 anni) è in grado di badare a sé quanto al più piccolo. Tutto ok finché non succede un casino, e Jack finisce in una casa famiglia da cui scappa per scoprire che la madre salcazzo dov’è. Comincia così una ricerca disperata per le strade di Berlino (credo), con la tristezza che monta e un finale che non ti aspetti. Applausi più che meritati.

martedì 11 febbraio 2014

ma non avete mai visto un cazzo?


Spoiler: in Nymphomaniac vol. I non c’è tutto il sesso che voi, miei cari pugnettisti, vi state aspettando. Poco di più di quello che vedreste in qualsiasi altro film, e considerate che io ho appena guardato la versione integrale. Lars Von Trier ve l’ha fatta un’altra volta, e ancora una volta con un gran bel progetto che è molto altro rispetto a quello che vi è stato venduto. Certo è solo la metà, ed è vero che parte come una 500 in salita, ma dopo 10 minuti decolla e all’orologio non ci pensi più. Emoziona tanto il capitolo con Christian Slater morente, si sghignazza con le lacrime grazie al vaudeville di una Uma Thurman da Oscar. C’è tanto cinema lì dentro, tanta roba. Stacy Martin nei panni della giovane Gainsbourg è perfetta, Shia LaBeuf è insopportabile come sempre.

lunedì 10 febbraio 2014

e non sono neanche comunisti


Kuzu (The lamb) sta alla Berlinale come La bicicletta verde sta al Tff: mattinata, film di cinematografia scognita (in questo caso turca), protagonisti bambini disgraziati… C’erano tutte le premesse per uscire sconsolati. E invece bambini strepitosi, parecchie risate e quasi applausi a scena aperta per il film di Kutlug Ataman che, come direbbe poison, è delizioso: divertente, pieno di battute spettacolari (perlopiù affidate alla sorella del protagonista), e con un macabro scherzo finale che è perfetto. La storia, quasi banale, è quella di Mert, circonciso in attesa di festa coi controcazzi, agnello sacrificale compreso: la sorella lo terrorizza, suo padre è un piciu che si spende tutto per una specie di sciantosa, ma per fortuna la madre ha i supercoglioni e proverà a risolvere tutto. Per capire il titolo, guardate il film, se riuscite a trovarlo. Consigliatissimo.

sabato 8 febbraio 2014

il mare è già qui che trabocca


L’ho già detto che non sono riuscito a vedere The Grand Budapest Hotel? Vabbè, l’unica alternativa, alla prima giornata della Berlinale, era il vietnamita Nước, letteralmente Acqua, ma il cui titolo internazionale sarà 2030. Il film di Nguyen-Vo Nghiem-Minh si svolge nel… 2030, bravissimi, quante soddisfazioni mi date quando state attenti! Beh, insomma, si immagina che per quell’epoca buona parte del Vietnam meridionale, per colpa dell’effetto serra, sarà sommersa dal mare. Se all’inizio temevo una specie di Waterworld (dove andate? fermi, ho detto temevo!), ho dovuto ricredermi, perché si tratta di un melodrammone dalle tinte ecologiste, piuttosto lento ma ben costruito, con un finale forse un po’ telefonato ma molto bello. La storia di Sao che cerca la verità sulla morte del marito e ritrova “dalla parte sbagliata” il suo vecchio stronzo amore di gioventù divenuto scienziato, non sarà un titolo fondamentale ma si fa vedere.

venerdì 7 febbraio 2014

l'uomo in ammollo


Mattina, ultimo giorno del Torino Film Festival. Figuriamoci, prima di quella... insomma, di quella certa attesa malriposta costituita da Grand piano (ne parlerò, datemi tempo). Insomma, sono andato a vedere All is lost con il minimo delle aspettative. E invece. J.C. Chandor, dopo il parlatissimo (e notevole) Margin call, sceglie di fare un film praticamente muto a parte gli smadonnamenti del protagonista. Protagonista assoluto che è un Robert Redford perfetto come non accadeva da un po'. Qualcuno ha detto che come velista disperso è vecchio, e invece è quello il suo bello: perché il pathos di questo film risiede per buona parte proprio nella fisicità del roscio, nelle sue rughe. Un'ora e tre quarti che scorrono con ansia e goduria. Certo vi deve piacere il mare, o un vomitillo non ve lo leva nessuno. Però, ora che è uscito, andate a vederlo, merita.

giovedì 6 febbraio 2014

a berlino... va bene


A prendere i biglietti per l'inaugurazione con Wes Anderson non ce l'ho fatta, ma non importa sai, c'avevo judo. E neanche George Clooney ho beccato, ma tanto in Italia esce tra una settimana. Però, ho in mano Resnais, Bouchareb, il dottor Caligari restaurato e la prima parte integrale di Nymphomaniac. Punto a Linklater, a Gondry che intervista a fumetti Noam Chomsky, a Nick Cave che si racconta, al documentario di Amelio sulle discriminazioni italiane contro i gay. Vedrò tanta Cina e, in generale, tanto oriente. Io, mentre esce questo post, sto già al festival. Per dirla con Renatino mio: «Non dimenticatemiii!».

mercoledì 5 febbraio 2014

la birra non è alcool


Da queste parti Alexander Payne non è amatissimo. Per quanto Paradiso amaro fosse un buon film. Così come Nebraska. Che però sembra sempre un po' paraculo come il suo regista, a cominciare dalla scelta del bianco e nero che fa tanto Eighties alternativi fuori tempo massimo. Payne, vabbè l'abbiamo capito, ci ha i problemi con la famiglia, specie se numerosa. Nel film con Clooney c'era quell'esercito di orrendi cugini, qui c'è un esercito di orrendi fratelli, più un paio di nipoti/cugini che vorresti in galera e buttare la chiave. Si ride e si pensa, ci si incazza e ci si commuove, anche grazie a un notevole Bruce Dern (ma che davero ha 77 anni?!?), accompagnato da un sorprendente Will Forte, ma soprattutto da una spettacolare June Squibb (la scena del cimitero vale il prezzo del biglietto) e da un redivivo Stacy Keach.

martedì 4 febbraio 2014

that's all, folk(s)!


Ci sono film che ci metti mesi a realizzare che ti sono piaciuti. Un po' come svegliarsi in piena notte con un'erezione dovuta a una delle belle passanti che non siamo riusciti a trattenere. Parlo dei fratelli Coen, che giovedì escono anche in Italia con A proposito di Davis. Che io ho visto al Torino Film Festival che era fine novembre. Fine del tiramento, inizio della recensione, o quel che l'è. Insomma, non è che non mi fosse piaciuto, ma è che dopo un capolavoro come A serious man, qualsiasi cosa poteva sembrare un po' così. Specie se, a dispetto di quello che si dice in giro, non sembra un film dei Coen. A me per certi versi ha ricordato Accordi e disaccordi, ma ambientato nel mondo del folk anni Sessanta, o in ogni caso un Woody Allen di buona qualità che parla di musica. Che dire? Amo i gatti e i film che parlano di musica, John Goodman (grande!) e Carey Mulligan sono persino più bravi di Oscar Isaac, Justin Timberlake fa la sua porca figura, la colonna sonora è (ovviamente) interessante: ma perché non mi ha convinto da subito?