martedì 27 gennaio 2015

il babadook dalla voce sottile


Lo so, l’ho già accennato un paio d’anni fa, ma è che il 2015 è cominciato da 27 giorni e sono già morte due paure della mia infanzia. Così. Taac. Paure di cui non è dato sapere perché. So solo che mi facevano paura. Joe Cocker. Non in persona, ma in quanto la sua canzone (che poi era una cover dei Beatles) era la musica di una sigla che mi spaventava. Vedere tutto quel giramento di macchine da presa (eh, buongiorno dottor Freud, prego, s’accomodi) mi faceva paura. La trasmissione era Avventura ed era una figata. Forse non proprio da bambini, ma andava durante la tv dei ragazzi quindi... E insomma, Joe Cocker è andato. Poi ieri ho letto di Demis Roussos (si sarà preso uno s'ciupun per la vittoria di Tsipras?) Insomma, quello stesso Demis Roussos per colpa del quale, per un certo periodo, ho rinunciato alla medesima tv dei ragazzi di cui era spesso ospite. No, non riuscivo a capacitarmi che un tizio così grosso avesse quella voce lì. Beh, una cosa tira l'altra ieri il mio pensiero è corso al cast di Jesus Christ Superstar, il primo (e per fortuna) unico film per il quale feci scappare i miei genitori dal cinema: avevo quattro anni e un’irrazionale paura allo stato puro. Poi però ho pensato che beh, forse se il tuo babadook muore è semplicemente perché tu stai invecchiando. E allora ho smesso di pensarci.

martedì 20 gennaio 2015

cattiverie


Il mio primo, pacato commento alla lettura delle nomination agli Oscar per il film straniero è stato «Ma che davero?». Cioè, in quella cinquina non c’è Virzì ma c’è Storie pazzesche?!? Ora, intendiamoci, il film dell’argentino Damián Szifron (e prodotto da Pedro Almodóvar) non è brutto, però è un film meh. Di quelli che dopo averli visti scivolano via, quelli che magari ti chiedi «Tutto qua?». E, soprattutto, non è per nulla cattivo come ce l’hanno venduto. Analizzando i vari episodi, beh, il primo è divertente e, sì, come hanno detto in tanti, è anche il migliore. Quello degli automobilisti ha un finale che è un piccolo colpo di genio e quello della festa di matrimonio ha una sua originalità pur nel già visto, mentre ho trovato vecchio l’episodio del pirata della strada (oddio, ma come parlo?), totalmente priva di humour l’avvelenatrice e francamente irritante e populista il bombarolo interpretato da Ricardo Darín: Szifron voleva suscitare quel tipo di irritazione? beh, se è così c’è riuscito in pieno. Insomma, non so: per me il cinismo sta da un’altra parte. Mi è venuta voglia di rivedere I mostri di Dino Risi, che sta a Storie pazzesche come il Saturday Night Live sta a Zelig.

lunedì 19 gennaio 2015

gomito a gomito con l’aborto


Ma dai, fanno ancora film americani indipendenti belli? Dico davvero indipendenti, non quelli un po’ e un po’. Film americani indipendenti che non rimandano a qualcos’altro, che non usano la musica come un passepartout per il tuo povero cuoricino che sogna di guidare per chilometri in una strada deserta, che non ammiccano all’hipster che si annida nell’ombra, forse anche tra le persone che ami: questi film esistono? La risposta è «sì, e io l’ho visto»: parlo di Obvious child, opera prima di Gillian Robespierre, interpretata da Jenny Slate, che nella vita è una stand-up comedian proprio come nel film. Bugggìa, in realtà nel film arrotonda facendo la “comica da bar” ma di giorno fa la commessa di una libreria che fallisce: lo so, farebbe 1000 punti hipster, ma nonostante questo particolare il film si fa perdonare. Non solo per le ottime interpretazioni dai ruoli principali a quelli minori, ma anche per una sceneggiatura che funziona più che bene. All’inizio è la storia di un’ossessione, poi di una botta e via che si trasforma in ammmore, poi - soprattutto - diventa la scelta della protagonista, determinata quanto piena di paura, di abortire. A passo di danza tra dramma e commedia come in pochi ormai sanno fare, Gillian Robespierre ci conduce verso un happy end che ci piace. E in culo alle polemiche dei cattolici integralisti. Ah, beh, ovvio che, dato l’argomento, dubito che arriverà in Italia. Ehm, dove posso affittare per qualche ora ogni tanto Richard Kind che gioca con i Muppets?

giovedì 15 gennaio 2015

fantasmi e sarcomi


Torno in famiglia, quella dei blogger cinematografari, per l’appuntamento mensile con il ricordo di chi, purtroppo, non c’è più mentre le teste di cazzo continuano a vegetare e figliare in sovrannumero. Questa volta parliamo di Mike Nichols, un regista che, dagli esordi fino ai tempi più recenti, ha firmato una sfilza di pellicole importanti, a volte belle, a volte splendide, ma anche qualche discreta sòla come Wolf e, più raramente, creature di difficile classificazione e giudizio come Angels in America. Si tratta di una serie tv in sei episodi prodotta dalla Hbo nel 2003 e fedelmente tratta dal lungo, celebre spettacolo teatrale scritto una decina d’anni prima da Tony Kushner. La storia, ambientata a New York nella seconda metà degli anni Ottanta, racconta la tragica scoperta dell’Aids attraverso le storie intrecciate di un avvocato traffichino, una coppia gay e una coppia etero e frustrata (lui, infatti, teoricamente sarebbe gay…). Il cast è pazzesco, a cominciare da un meraviglioso Al Pacino passando per Mary-Louise Parker (l’altmaniana moglie repressa) e una multiforme Meryl Streep che interpreta un tot di ruoli di cui ho perso il conto (superato il wtf iniziale, adorerete anche il rabbino). Finché la storia resta ancorata alla realtà, beh, chapeau: l’intreccio appassiona e ci sono dialoghi e monologhi che farebbero la felicità di ogni attore. Poi, però, alla realtà si alternano le visioni. E arrivano gli angeli. Anzi l’angelo Emma Thompson, che scopa per aria più o meno come nella piscina di Cocoon. E c’è anche una specie di aldilà che richiama Cocteau. E i fantasmi, compresa quella Ethel Rosenberg che, negli anni Cinquanta, fu condannata a morte con il marito per attività antiamericane in seguito a un processo piuttosto ridicolo. Nel frattempo il film si perde, e non si capisce più bene dove vada a parare. Però, a dispetto delle follie e della durata, non annoia mai.


Ed ecco chi partecipa con me al ricordo di Mike Nichols:

Director's cult - Wit, la forza della mente
Il bollalmanacco di cinema - Chi ha paura di Virginia Wolf?
La fabbrica dei sogni - Una donna in carriera
Mari's red room - Wolf la belva è fuori
Non c'è paragone - Il laureato
Onironauta idiosincratico - Il laureato
Pensieri cannibali - La guerra di Charlie Wilson
Recensioni ribelli - Closer
Scrivenny - Closer
White Russian - Silkwood

martedì 13 gennaio 2015

niente froci, siamo inglesi


Cos’è che dicevamo ieri? Ah, non era ieri? Era mercoledì? Cazzo come passa il tempo! Vabbè, viene quasi uguale, perché comunque oggi torniamo a parlare di solido cinema classico. Fatto nel 2014, visto nel 2015. Dopo Tim Burton, un’altra sorpresa. Un film da cui mi aspettavo poco, dato il trailer piuttosto loffio: The imitation game non è solo un buon tentativo di creare un biopic da Oscar (tentativo probabilmente disperato, visto che se la dovrà vedere con La teoria del tutto), The imitation game è proprio un buon film e basta. Non cercate svolazzi, virtuosismi di macchina o di scrittura: Morten Tyldum, regista norvegese al suo primo film di successo internazionale, forse si farà, o forse no. Ma sappiate che, anche se cercate bene, di retorica qui ne troverete davvero poca. La storia di Alan Turing, padre dell’informatica, matematico simpatico come un punteruolo nel culo ma capace di grandi slanci e di grande genio, l’uomo che con il suo computer ha aiutato la sconfitta dei nazisti, l’omosessuale represso che, una volta scoperto, da gloria dei servizi segreti diventa un malato da castrare chimicamente (vi ricorda qualcosa?), ti prende, ti emoziona, ti coinvolge. E insomma, io quando Keira Knightley va a visitarlo dopo tanto tempo, un pianto me lo sono fatto. Benedict Cumberbatch veste a pennello i panni di Turing. A Keira Knightley, forse un po’ sottotono, tocca il ruolo di Joan Clarke, la donna che, in quanto tale, partecipò in incognito alla decifrazione del codice e che, per amore del tutto, accettò anche di sposare il matematico, salvando lui dalle malelingue e lei stessa da un probabile marito stupido. Si esce gravidi di riflessioni: era solo metà del secolo scorso, ma non è che poi le cose siano cambiate così tanto. L’ipocrisia, in fondo, mi pare sempre più bulimica.

mercoledì 7 gennaio 2015

per plagiarti meglio


Ciao Tim Burton! Che bello che sei tornato. E che hai lasciato a casa un po’ di carrabattole e sei venuto un po’ così come ti trovavi. Tanto solido cinema classico (ne parleremo anche domani del scc, tra l’altro) ma con il tuo marchio sopra, come una serigrafia di Warhol di qualche stella hollywoodiana. Ennesima storia vera, quanto incredibile, proposta in questo inizio d’anno, Big eyes è una godevole, piacevolissima sorpresa. Amy Adams è brava ma il viscidissimo Keane è un’altra delle perle di Christoph Waltz, che con quel sorriso a me è tanto sembrato una versione psicopatica di Dick Van Dyke. Fotografia dell’ottimo Bruno Delbonnel, overdose anni Sessanta, sì, ma essenziale. Sceneggiatura asciutta, funzionale, opera di quei geniacci esperti in biografie di Scott Alexander e Larry Karaszewski (Larry Flynt, Ed Wood, Man on the moon): la sequenza del processo è perfetta. E vedere Terence Stamp, anche per poco, è sempre un piacere.

lunedì 5 gennaio 2015

chi va in guera magna mal e dorme in tera


Ciao cowboy, ascolta: questo post non ti piacerà. Forse. Ma sappi che scriverlo è stata una sofferenza mica da ridere... Clint Eastwood non è solo uno dei migliori registi della sua generazione: è anche un vecchio signore dalle solide ma erodibili idee destrorse (patria e famiglia, perlomeno dio è un optional), che fortunatamente nei decenni ha modificato la sua visione del mondo, si è ammorbidito, ha messo da parte la retorica patriottarda degli anni Ottanta, e ha espresso il meglio del suo cinema bellico nel 2006 con una doppietta di eccellenti pellicole sulla battaglia di Iwo Jima. Per questo, poi, uno vede American sniper, che sembra un lungo spottone pubblicitario per i Navy Seals, e si incazza. Insomma, se vi aspettate esercitazioni nel fango, umiliazioni verbali, virili e camerateschi dialoghi che puzzano di birra scadente e mutande sporche, funerali con cariche a salve, bandiere piegate e madri piangenti, li avrete. Il protagonista (storia vera) è stato uno dei più letali cecchini delle ultime guerre Usa: il padre severo, la retorica della caccia, una carriera (?) da cowboy, l’illuminazione sulla via dell'esercito, 160 cattivi ammazzati in cinque turni (circa 1000 giorni). Lo interpreta Bradley Cooper in versione bue grasso di Carrù, prima senza e poi con la barba (per la gioia delle comunità bear di tutto il mondo occidentale…): è bravo, nulla da dire. È credibile. Peccato che lui, come la ancor più brava Sienna Miller, sia supportato da dialoghi tremendi (la storia d’amore tra i due, soprattutto finché va bene, sembra uscita da un Harmony) e da una sceneggiatura potenzialmente ricca, ma in realtà quasi monodimensionale: tutti gli spunti psicologici sono buttati alle ortiche dopo poche sequenze, e alla riabilitazione di Kyle (miracolosa, vista la rapidità) sono dedicati gli ultimi dieci minuti del film. D’altra parte, chi ha scritto per lo schermo l’autobiografia del cecchino è Jason Hall, il natovecchio autore de Il potere dei soldi. Restano la scena già vista nel trailer, di notevole impatto, e Sammy Sheik che interpreta una sorta di alter ego musulmano del protagonista, o almeno così sembrerebbero suggerire certe cose buttate lì in superficie: uno che è pure molto più fico di Cooper, anche se conciato da Sandokan.