giovedì 12 dicembre 2013

dove nietsche e marx si davano la mano


Dice la mia teacher dal bell'accento british «Domani qui sono previsti tafferugli». Ha detto proprio così, tafferugli. Perché gli stranieri che imparano l'italiano lo imparano da dio, sempre. Comunque, ciò vuol dire che, dopo la prova generale degli studenti di oggi, domani anche nel bdcdP ci saranno cacacazzo a protestare in ogni dove. Dice che si chiamano i forconi. Ora non so se il nome se lo sono dato loro o i giornalisti o qualche titolista che andava de prescia, fatto sta che 'sto nome, ai variopinti signori giovani e meno giovani che scendono in piazza, piace. E già lì, perdono mille punti. Perché per come la vedo io il forcone è solo una grossa forca, ché di campagna questi qui hanno visto solo quella acquisti sulla Gazzetta. Ci saranno dentro un sacco di persone oneste che si fanno il culo, che pagano fino all'ultimo centesimo di tasse, persone esasperate, disperate, che si sono rotte di un immobilismo fatto di pezze neanche tanto a colori, di spread e di mutande della lega (Cota chi?), di imu e di puttane, di tasse e cazzi a pompetta. Persone per cui Renzi ha l'appeal di un pianosequenza cecoslovacco muto di quattro ore. Ma nel mezzo ci sono gli ultrà (minchia, gira e fai deve sempre entrarci quel cazzo di pallone!), l'estrema destra e l'estremissima sinistra, quelli che non hanno mai letto un libro e pensano di riscaldarsi bruciandoli, tizi che girano tra le macchine in colonna a distribuire volantini e nessuno (per paura o scazzo) che scenda a saccagnarli. Gente (con qualche g) che punta a far fuori quel poco di democrazia che ancora finge di vivacchiare ma si trascina con la bombola d'ossigeno. In tutto ciò, il cartello apparso a Milano, «A piazzale Loreto c'è ancora posto», ha un che di surreale. Dopo Mussolini fu la Dc, dopo Craxi scioltadimmerda. Non voglio sapere cosa potrà esserci dopo.

mercoledì 11 dicembre 2013

belli grossi e capoccioni


Bravi, avete capito il titolo del post! Ammazza quanto siete perspicaci: oggi parliamo dell'ultimo (spero last but not least, come invece pare sia) film di Steven Soderbergh. Partiamo da qui: Dietro i candelabri, tratto da una storia verissima, è una delizia dal punto di vista tecnico. Seventies nei Seventies, Eighties negli Eighties. Chapeau (adesso torno a parlare italiano, no os preocupáis). E poi c'è un gruppo di attori che definire perfetto è dire poco: a me Matt Damon sta simpatico come quella ragade che ti sfastidia il sesso anale - per dire - eppure qui, nei panni di Scott Thorson, ha il suo perché. Michael Douglas è da Emmy (sì, perché il film è andato sulla Hbo, a quanto pare era troppo frocio per il cinema americano, gesussanto!) nel ruolo di Liberace, in quel periodo entertainer e pianista di talento (uh, come mi viene in mente Carmelo Bene quando parlava della differenza tra talento e genio!). E vogliamo parlare di un eccelso Rob Lowe, sorta di Freddie Mercury cinese tanto è tirato per l'occasione? Ah, dimenticavo, c'è anche un grande Dan Aykroyd. Taciamo di Debbie Reynolds (a proposito, ma quanti anni ha?)? Ma manco per niente. Parliamo dei dialoghi? Io a «Sembro mio padre in Piano piano dolce Carlotta» mi sono ribaltato, unico al cinema, ma era una battuta troppo colta per il pubblico intorno. Insomma, una delizia. Certo sul finale si perde un po': l'Aids uccide, anche i migliori copioni, probabilmente. Però merita. Cazzo se merita.

martedì 10 dicembre 2013

there's danger on the edge of town


Se qualcuno mi avesse detto «vedrai un film con Jonah Hill, Seth Rogen, Michael Cera e Jay Baruchel che ti piacerà», col tatto che mi contraddistingue l’avrei mandato a cacare. E invece tocca ricredermi: This is the end (fanculo il titolo italiano), primo lungometraggio di Evan Goldberg e Seth Rogen (che nonostante ciò continuo a non reggere), è un’adorabile cazzatona fieramente irriverente e molto molto divertente. L’idea degli attori che interpretano se stessi, prendendosi per il culo ed esagerando difetti veri o presunti, è la chiave che permette al film di elevarsi dalla media anche nei momenti più grevi. James Franco ormai per me è un mito e comincio a pensare mi faccia anche un discreto sesso; non quanto Emma Watson, comunque, la cui partecipazione peraltro regala una delle parti più divertenti della pellicola. A dispetto dello spiegamento di effetti più o meno speciali, l’apocalisse è una mera scusa, tanto che il finale (a parte il cameo di Channing Tatum) regge fino a un certo punto: resta un po’ il dubbio che Kevin Smith l’avrebbe fatto meglio.

lunedì 9 dicembre 2013

se è cinico deve essere il belgio


Ma quante soddisfazioni dà la cinematografia di quel piccolo sputo di nazione incastonato tra Francia, Olanda, Germania e Lussemburgo? Quasi quanto le sue birre. Il problema è che, se qualche birra bene o male arriva, i loro film da queste parti spesso rimangono sconosciuti. Au nom du fils, poi, è pressoché improbabile che esca in Italia. Il film di Vincent Lannoo è uno dei tre che mi hanno fatto gridare yeppa al Torino Film Festival: una commedia nera in cui si riesce a sghignazzare di cose terribili come chiesa e pedofilia, una satira cruda e spietata che vede protagonista una donna (Astrid Whettnall) che, dopo la morte del marito e il suicidio del figlio, scopre che il primo si allenava alla guerra santa contro i musulmani, l'altro era stato abbandonato dal prete che lo aveva circuito. Svalvola (o forse no) e comincia a uccidere tutti i sacerdoti coinvolti in questioni torbide in una escalation degna di Tarantino. Ci si diverte un sacco, alla faccia del politicamente corretto.

venerdì 6 dicembre 2013

nostalgia de menasse


Dici: ma tu non sei snob? No, comunque all'invito al Tamarrata day, partito dal mitico Frank Manila e spalmato su ormai due settimane, non potevo mancare. A modo mio, perché qui, toglietevi il cappello e sciacquatevi la bocca, parliamo di mr Walter Hill. Uno che ha fatto film memorabili e spesso ignorati, uno che mancava dal grande schermo da undici anni, da quell'invisibile, magnifico cult che era Undisputed. Il ritorno era un'occasione ghiotta perché, diciamocelo, Sly mi è sempre stato un po' sul cazzo, ma è anche uno che, servito da un buon copione, fa la sua porca figura. Ecco, qua cominciano i guai. Perché Jimmy Bobo-Bullet to the head (per una volta mollo lì la polemica sui titoli italiani, questo è stato scelto democraticamente e varrebbe la pena stenderci un plaid pietoso...) è un filmetto che, sebbene girato come si deve, resta un filmetto. Stallone, killer di vecchia scuola con figlia tatuatrice bona (Sarah Shahi), decide di farsi giustizia insieme (o malgrado) un poliziotto asiatico ingenuo e fissato con internet (Sung Kang) contro il cattivissimo (e non è il solo) Christian Slater. Indovinate come finisce? Ecco, esatto. E non si può neanche dire, come ho letto da qualche parte, che sia un omaggio a certo cinema anni Ottanta: la violenza è meno caricaturale, più diretta. E poi le tecniche di ripresa, ahimè, appartengono di più ai giorni nostri, con tutti quegli insopportabili flash che sembra sempre ci sia qualcuno che scatta le foto. Un'ora e mezza scorrevole, ma Hill ci ha abituato a perle di cui qui c'è solo qualche traccia sbiadita: non bastano il riscatto dei perdenti e le atmosfere livide e notturne di New Orleans e New York.


Ed ecco, di seguito, tutti i blogger della partita:

26/11 - Movies Maniac
30/11 - WhiteRussian

giovedì 5 dicembre 2013

la delusione è nell'imbottitura


Se penso a Carlo Mazzacurati mi viene in mente Notte italiana, prima produzione Moretti, Marco Messeri protagonista con Giulia Boschi (ma che fine ha fatto?). Poi penso alle emozioni de Il toro, e io e L. che balliamo sotto i portici di mamma Bologna scimmiottando una delle scene più belle. Infine mi viene in mente «Adele chi?» de La passione, imperfetto ma interessante esperimento di quasi metacinema. Ora, la cosa strana non è che abbia potuto tirar dentro millemila dei tanti attori sulla piazza (Albanese, Balasso, Battiston, Bentivoglio, Citran, Orlando, la Ricciarelli, giusto per dirne un po') per fare una comparsata ciascuno in La sedia della felicità: quella si chiama amicizia. Quello che è davvero incomprensibile è come Mazzacurati sia riuscito a ricavare un film così... anemico. Un pallido, pallidissimo remake de Il mistero delle dodici sedie di Mel Brooks (già remake dell'ultimo sgarrupato film della povera Sharon Tate, a sua volta tratto da un vecchio romanzo russo), privo di nerbo, dove si ride poco e non mancano sciatterie e incongruenze (va bene che è una commedia, ma esageruma nen!). Per non parlare dell'orribile orso finto del finale con un po' troppa montagna... Valerio Mastandrea e Isabella Ragonese funzionano, ma non bastano a tener su un baraccone così appuntato con gli spilli. Uscita non ancora prevista, se proprio siete curiosi.

martedì 3 dicembre 2013

vincitore morale, soprattutto morale


È il segreto di Pulcinella, ma lo ripeto per i distratti: sono un ragazzo del '69. A metterci il carico, sono un ragazzo del '69 nato a Palermo. Pif mi piaceva in tv, aveva una cifra diversa, una marcia in più. Mi preoccupava abbastanza il suo primo film, temevo non ce l'avrebbe fatta. Quando ho scoperto che la sceneggiatura l'aveva scritta a quattro mani con un Neri Parenti boy (Marco Martani), la preoccupazione è aumentata. Poi mi sono rilassato, e una mattina, al Tff, ho visto La mafia uccide solo d'estate. Ora, N., la sorella di Tiz (come chi è Tiz?), mi è testimone: è stata un'esperienza devastante. E non in senso negativo, perché il film, a dispetto della presenza della Capotondi, funziona e molto. Ma perché l'infanzia/adolescenza/maturità del protagonista è la mia. Perché quegli anni a Palermo in cui era quasi normalità un morto al giorno, anche quasi sotto casa (Chinnici di fronte casa di mia nonna, Giuliano di fronte casa della mia amica S., per non parlare del covo di Riina a 200 metri dalla mia), quegli anni in cui a scuola, nei momenti di noia, contavamo le sirene della polizia, per non parlare di quel '92 in cui scavalcammo i muri della cattedrale per assistere a un funerale inutilmente blindato, li ho vissuti in pieno anch'io. E la cifra di Pif, la sua scelta di una commedia surreale che si mescola e si trasforma continuamente in un reportage fedele di quel periodo, mi ha conquistato. Andate a vederlo, cazzo.

lunedì 2 dicembre 2013

per quello che ne so, il complesso di edipo non è una band


Oh, sapevatelo, il Torino Film Festival è finito. Peccato, eh, perché al 36esimo film in otto giorni, per quello che mi riguarda, viene voglia del numero 37. Detto ciò, brevissimo bilancio: di film memorabili ne ho visti due, e ve ne parlerò. Belli, qualcuno. Molti, troppi, carini. Come il vincitore. Si tratta del messicano Club sandwich, opera prima di Fernando Eimbcke. Che sarebbe stato un ottimo cortometraggio, ma 82 minuti sono davvero troppi. Tirare per un'ora e venti la storia di questo adolescente pingue e segaiolo (Lucio Giménez Cacho), in vacanza con la mamma bona (Maria Renée Prudencio) in un albergo deserto fuori stagione finché non arriva la paciarotta Danae Reynaud, un po' più scafata e pronta a darsi senza problemi, è un po' uno sforzo inutile. Attori bravi, dialoghi e situazioni spesso divertenti, ma lungaggini francamente inutili. Ritenti, sarà più fortunato.