lunedì 24 ottobre 2011

perché sono monello?


Sono impazzito? No, torno a parlare di This must be the place. Cheppalle? Non è colpa mia, prendetevela con il mio ammmore che, pur continuando a minchionare sul fatto che non capisce niente di cinema (palese bugggia), mi ha messo una pulce nell'orecchio di cui non riesco a liberarmi. Si parlava del finale e io dicevo «Beh, secondo me aveva senso che finisse sulla scena della sigaretta. Un finale che diceva tante cose ma aperto, che dopo non sai». E lei (cito a capocchia, ma il senso è questo): «A me è piaciuto finché ci sono i colori vivaci. Da quando lui smette di essere se stesso per diventare “adulto”, i colori sono grigi». E allora ho rivisto Cheyenne e mi è venuto in mente l'eterno equivoco su Pinocchio. Quel capolavoro della letteratura italiana che da sempre fa comodo trasformare in favoletta Disney, quello che ci intortano a scuola essere finto quando di legno, vero se bambino ingabbiato nelle convenzioni sociali. Forse quello di This must be the place non è un happy end. O forse Sorrentino (e chissà Collodi) non ci ha nemmeno pensato.

venerdì 21 ottobre 2011

a me la scritta cuisine non dispiaceva


Com'è che diciamo noi ggiovani? Tanta roba! Esci dalla visione di This must be the place con la testa, le orecchie, il cuore pieni. Magari riconciliandoti il mattino dopo con un finale che ti aveva soddisfatto a metà. Certo, Paolo Sorrentino deve tanto alla visione dei Coen e di Lynch, ci sono scene di raccordo che non sarebbero state perdonate a Muccino, il film si fonda quasi tutto su uno Sean Penn in stato di grazia la cui interpretazione sembra (?) costruita per l'Oscar, ma Caaaazzo!, come direbbe lo stralunato protagonista, nulla è lasciato al caso, l'estetica non è quasi mai calligrafica, e si esce notevolmente appagati. Ah, 'ndovina? Ho pianto. Ché, insomma, quando Cheyenne si sfoga con David Byrne (che fa se stesso, meraviglia d'uomo) e tira fuori tutto quello che fino a quel momento avevamo solo intuito, beh Caaaazzo! se non ci si commuove si è un po' bestie.


lunedì 17 ottobre 2011

mica stiam qui a pettinare le bambole


Settimana lavorativamente complicata, quella scorsa. E i tanti spunti per un post, mah, svaniti. Ché mi sarebbe pure piaciuto raccontare l’ennesima e per me inedita fetta di Milano (non il salame, oh stupidi superstiti lettori), ma chissà, magari tornerà fuori. Poi ieri, complice un ritardo di sei minuti sull’orario che ci interessava, abbiamo saltato il triangolo Freud-Jung-Cronenberg in favore di Tomboy. Che è un piccolo film francese di una regista sconosciuta (Céline Sciamma), interpretato da un nugolo di giovanissimi notevoli (ma più ancora della protagonista Zoé Héran, è fantastica la piccola Malonn Lévana) e che racconta l’indecisione sessuale di una bambina di dieci anni, sospesa tra il desiderio di farsi accettare dal gruppo, vivere la cotta per l’unica altra ragazzina dei dintorni e sopravvivere a una happy family ai limiti dello stucchevole. Carino, “delicato” come si diceva una volta, con alcuni momenti molto riusciti.

lunedì 10 ottobre 2011

d’amore di morte e di altre sciocchezze


Lui ha un amico immaginario giapponese e, in preda ai sensi di colpa, flirta con la morte, lei ha un cancro, tre mesi di vita e se ne innamora senza saperne nulla. In mano ad altri, Restless (no, il titolo italiano no!) sarebbe stata una indigeribile mappazza per sartine dentro; Gus van Sant, che pure non è al suo film migliore, lavora fortunatamente per sottrazione, senza compiacimento del dolore, e realizza una specie di Love story a tratti originale, spesso spiazzante, con la complicità di due gggiovani formidabili, Henry Hopper e, soprattutto, Mia Wasikowska. Come dite? E certo che si piange come vitelli, compresi i titoli di coda con The fairest of the seasons cantata da Nico.

venerdì 7 ottobre 2011

lc 630


Perché oggi? Perché sono uno snob, perché ci sono rimasto di merda, perché volevo capire se e cosa scrivere, perché tutt’intorno è un fiorire di cazzi miei. Buttar lì le frasi di mr. Jobs mi sembrava una roba da fb, anche se più le leggo e più rendo conto di quanto spesso mi ci ritrovi. Il fatto è che il patron di Apple ha invaso piacevolmente la mia vita come quella di qualche miliardo di persone. Ha saputo coniugare bellezza e funzionalità. Un pezzo sostanziale di Pixar è opera sua. E lo slogan «la fantasia al potere» sembrava avere trovato finalmente il suo senso. Non sopportando le prefiche, mi piace citare uno Spinoza di ieri, impagabile come spesso accade: «Steve Jobs è morto. Vediamo se Bill Gates gli copia pure questa».

giovedì 6 ottobre 2011

anche tu sei in terapia?


Fidatevi: prima trombate, poi andate a vedere l'ultimo Almodóvar. Altrimenti rischiate non solo di non trombare, ma di fare anche dei signori incubi. La pelle che abito è uno strano strano film in cui il regista ha messo tutto, troppo: non manca quasi nulla all'appello dei casi psicanalitici. Il colpo di scena è piuttosto telefonato nonostante l'improbabile costruzione temporale; il sarcasmo spalmato qua e là non è sempre efficace, anzi talvolta è incomprensibile. Eppure c'è un'intrigante atmosfera a metà tra Jesus Franco e Rebecca la prima moglie, c'è Antonio Banderas fieramente invecchiato (bel culo, peraltro) che sembra uscito da qualche noir malato della vecchia Hollywood, e c'è Elena Anaya (bellissimo culo, peraltro) che dà una prova straordinaria a metà tra la bambola smarrita e l'angelo vendicatore.

lunedì 3 ottobre 2011

cinque minuti


Saranno quegli orribili titoli di testa fucsia, le palme di Los Angeles, la colonna sonora in stile, la presenza di un irriconoscibile Albert Brooks (com’è invecchiato maaale); sarà che Carey Mulligan è la classica tipa di cui mi sarei innamorato follemente a 15 anni, ma finito Drive mi sentivo così Eighties che mi erano persino cresciute le spalline. Detto ciò, ma che goduria è ’sto film? Regia impeccabile, grande ritmo, belle idee (vedi la lunga sequenza iniziale o quella dell’ascensore), Ryan Gosling perfetto senzanome con due espressioni, poche battute e un unico vestito sempre più lercio. Voglia di recuperare i film precedenti di Winding Refn, compreso il bistrattato Valhalla rising ché, come si sa, curiosissimo sono.