venerdì 27 settembre 2013

chi lavora è perduto


Forse la cosa che mi piace di più dei film di Gianni Amelio sono i titoli: Lamerica, Così ridevano, L’intrepido. Evocano canzoni, vecchie rubriche della Domenica del Corriere, riviste a fumetti della mia infanzia (ebbene sì, io a meno di dieci anni leggevo L’intrepido, ma soprattutto Lanciostory e Skorpio che rubavo alle mie sorelle, capite perché sono diventato così?). Detto ciò, che dire del film? Mah. Che non è meh, perché la maschera tragicomica di Antonio Albanese trova forse in questo caso il suo migliore impiego drammatico. Perché Gabriele Rendina è una bellissima scoperta. Perché scene come quella del negozio di scarpe valgono il biglietto. Perché la Milano uggiosa, talvolta astratta, troppo spesso distratta, quasi sempre deserta, è sempre la fidanzata brutta della vecchia, amara, attualissima battuta di Paolo Rossi, quella secondo cui devi sempre spiegare agli amici perché ti piace. Tuttavia, in questo come in tanti recenti film italiani c’è una difficoltà di fondo a far convivere dramma e commedia. E il buonismo di certe situazioni, o il semplicismo della pur valida scena finale, lasciano un po’ così.

mercoledì 25 settembre 2013

in fila per cinque/1


Alla fine mi sono deciso. Ispirato dal mitico Frank Manila e precisino come solo il Bradipo sa, ho deciso di aprire questa rubrica a cadenza settimanale per raccontare quali sono secondo me i migliori film (migliori soprattutto per quello che mi hanno trasmesso, perché dovessi scegliere solo da un punto di vista artistico avrei grosse difficoltà) per ogni anno della mia vita. Poiché il vecio scrivente è del 1969, sarà lunga. Ma cazzeggiando cazzeggiando, arriveremo al traguardo. Si comincia...

1969 – Un uomo da marciapiede
John Schlesinger, da poco a Hollywood e in uno stato di grazia che sarebbe durato per tutti i Seventies. Jon Voight come probabilmente non è più stato, nei panni del gigolò più imbranato d'America. Dustin Hoffman immenso nei panni del traffichino Sozzo, e poco importa se capiamo già da subito che alla fine morirà. Tre Oscar, ma non agli attori. Ah, Everybody's talkin' per colonna sonora.

1970 – Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto
Elio Petri, il più grande e dimenticato regista italiano. Gian Maria Volontè di una bravura strepitosa nei panni di un questore corrotto e fascista che uccide la sua amante (Florinda Bolkan) e, pur agognando l'arresto, rimane impunito o forse no. Atmosfere oniriche e kafkiane come solo Petri sapeva fare. Colonna sonora “storica” di Ennio Morricone. Oscar per il miglior film straniero.

1971 – Arancia meccanica
Il primo film della lista che ho visto al cinema, quando è stato riproposto nel 1998. Kubrick: devo aggiungere altro? Romanzo di Anthony Burgess. Malcolm McDowell bello come un dio. Singin' in the rain, Ludovico Van e il Guglielmo Tell. Una potenza visionaria straordinaria. Una morale scomoda molto più delle scene di violenza. Immenso.

1972 – Ultimo tango a Parigi
Ci credereste? Lo vidi per la prima volta in tv, canale5 di una vita fa, preceduto e seguito da una messa cantata di Mauriziocostanzosciò da spararsi nelle palle. Nonostante fossi ggiovane e nonostante la cornice, fu colpo di fulmine. La storia d'amore disperata di Paul (Brando in una delle sue migliori performance) e Jeanne (Maria Schneider dal breve, fatuo successo) è di quelle che ti prendono per le palle fino a farti lacrimare. Scena del burro da ascoltare: siamo seri, la pietra dello scandalo è quel monologo, non la scopata. Parte finale straziante.

1973 - L'esorcista
Ancora uno dei miei registi preferiti (William Friedkin), ancora un paio di attori pressoché svaniti nel nulla (Jason Miller e Linda Blair), ancora un film vittima di un abbaglio. Perché quello che è considerato (anche giustamente, dal punto di vista strettamente cinematografico) il grande antesignano dei film horror dedicati alle possessioni, è in realtà un potente, tristissimo, profondo film sulla perdita della fede.

sabato 21 settembre 2013

impeach felix bush


Misteri. Perché mai un film con Bill Murray, Robert Duvall e Sissy Spacek dovrebbe restare inedito in Italia? Prima ancora di sapere che avrebbe vinto il premio del pubblico e che i due protagonisti si sarebbero aggiudicati ex aequo il riconoscimento come migliori attori al Torino Film Festival 2009, ero certo che una pellicola così avrebbe trovato una distribuzione. Infatti quella volta lo saltai a piè pari preferendo salcazzo quale film scognito. Bravo pirla, me lo dico da me. Eppure Get low, opera prima e attualmente unica di Aaron Schneider, è una commedia drammatica che parla di vecchiaia, solitudine, morte, senza mai essere patetica o noiosa. Merito di grandi interpreti e di una sceneggiatura ben costruita, senza colpi di genio ma anche senza banalità, con una serie di dialoghi divertenti e pungenti al punto giusto. Impossibile non ridere o emozionarsi delle vicende di un vecchio eremita (Duvall strepitoso), dal passato misterioso, inviso da tutti e con una mula a fargli da guardia, che, negli anni Trenta o giù di lì decide di organizzarsi un funerale da vivo (il fallimentare e alcolista titolare delle onoranze funebri è un Bill Murray misurato ma adorabile) per raccontare finalmente la sua tragica storia e poi morire in pace. Recuperatelo e godete per 103 minuti. E maledite anche chi preferisce spalmare su mille schermi un sacco di monnezza...


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martedì 17 settembre 2013

un tumore chiamato normalità


Forse davvero ci sono libri che devono restare tali. Romanzi intraducibili, scogli contro cui si scontrano anche i migliori, dal Cronenberg de Il pasto nudo al Gondry de La schiuma dei giorni. Non che L'écume des jours (titolo internazionale Moon Indigo, vabbuò) sia un brutto film: anzi, è probabilmente l’adattamento più fedele e funzionale che se ne potesse ricavare. Gli attori (non solo Audrey Tautou e Romain Duris, ma anche Gad Elmaleh e Omar Sy) sono azzeccati, alcune idee sono molto riuscite (bellissima la stanza dei dattilografi, strepitosa la scena del comizio di Jean-Sol Partre), sulla validità di altre soluzioni (l’utilizzo pedissequo di alcuni dialoghi che funzionano sulla carta ma molto meno sullo schermo, le animazioni vecchio stile, il topo interpretato da un attore in carne e ossa) si può discutere da qui a infinito, la feroce critica anticlericale e antintellettualistica funziona bene, la colonna sonora (non solo grazie a Duke Ellington) merita l’acquisto. Tuttavia, nonostante la parte drammatica sia decisamente più riuscita di quella iniziale, Michel Gondry riesce a comunicare solo in minima parte le emozioni forti, a volte violente, che suscita l’anarchica, visionaria, bellissima favola per adulti che Boris Vian scrisse nel 1947. Che, naturalmente, dovete leggere se non l’avete già fatto.

giovedì 12 settembre 2013

compagni dai campari e dalle piscine


Lo inseguivo da un po’. L’ho cercato parecchio. Ne ho recuperato una copia indegna, poi, finalmente, una di qualità decisamente migliore. Mi incuriosiva la trama, avevo ragione. Parlo di un film che ha quasi la mia età (1970) e che, fatta la tara di tutto ciò che appare datato, continua a essere parecchio attuale: Lettera aperta a un giornale della sera. Citto Maselli, regista communista in altre occasioni piuttosto insopportabile, qui riesce in un’impresa fenomenale. La storia è quella di un gruppo di intellettuali di sinistra che il tempo, il successo e i sensi di colpa hanno ammosciato in un immobilismo fatto di feste (in versione più noiosa di quelle de La terrazza o de La grande bellezza, ma dal tenore non dissimile), donne spesso smutandate e apparentemente succubi, “sesso libero ma entro un certo margine”, teatro off (Giovanna Marini è un cameo prezioso) e oziosi discorsi politici fatti di parole vacue e pesanti come scorregge. Nell’ennesima serata di noia, e convinti che nessuno gliela pubblicherà, scrivono una lettera a Paese Sera offrendosi volontari in Vietnam, naturalmente contro il nemico americano. Ma la cosa gli sfugge di mano, saranno presi molto sul serio, arriverà l’appoggio convinto di tanti intellettuali importanti compreso Sartre, quello forzato del partito, e infine il permesso di partire. L'ironia non manca, anche se non sempre la commedia riesce ad amalgamarsi al dramma. Lo stile iniziale, smozzicato, slabbrato à la Godard, lascia il posto pian piano a riprese più “normali”, immagino a segnare il passo tra la situazione di partenza e la sua degenerazione. Tra le poche facce note, spicca un ottimo Nanni Loy che probabilmente avrebbe meritato di stare di più davanti alla macchina da presa. Ah, bisognerebbe chiedere a Salvatores quanto ha pesato il finale di questo film nella sua carriera.

giovedì 5 settembre 2013

sim sala bim


Che fine ha fatto Silvan? Ricordo che da bambino l’uomo dalla cofana tirata pre-Derrick e i polsini più grandi del mondo (da cui ovviamente tirava fuori l’impossibile) aveva un potere ipnotico sul sottoscritto. Quella voce, poi, così pacata, quegli “eh eh” ripetuti come un mantra, come a dire «ci siamo? mi seguite? tanto vi prendo per il culo e il trucco lo so solo io»... Beh, insomma, tutto ciò per dire che a me i maghi piacciono. Non gli sboroni alla Copperfield (che mi stanno un po' sul cazzo), non gli Oscar Diggs da circo di periferia (che mi mettono un po' malinconia), non i tait consumati ai gomiti da fine carriera in un villaggio vacanze (che sono La Tristezza); a me piacciono i maghi alla Silvan. Ah, anche al cinema adoro i maghi, ho amato alla follia The prestige, ma in quel caso, mi rendo conto, era troppo facile. Forse per questo, pur non sapendo bene cosa aspettarmi da un regista in passato piuttosto mediocre come Louis Leterrier, sono andato a vedere Now you see me: sorpresa, m’è piaciuto sì. Intrattenimento puro, da domenica pomeriggio, ma costruito proprio bene. Ok, la trama è impossibile, ma funziona. Ok, il colpo di scena a fare due conti si poteva intuire un po’ prima. Ma è stata gioia per i miei occhietti stanchi. E poi, grande cast, di quelli che sulla carta sembrano un po’ tirati fuori dal cappello (ops!) e invece hanno il loro perché: Jesse Eisenberg, Mark Ruffalo, Morgan Freeman, Dave Franco, Woody Harrelson, Michael Caine, Mélanie hounnasobellissimo Laurent. Unico appunto: le riprese da vomito dello show dei maghi; e lo so che quegli inutili dolly e quei fasci di luce senza tregua si usano sul serio in quel tipo di riprese televisive, ma al cinema, al cinema... te prego.

martedì 3 settembre 2013

il tutto per la parte (e ritorno)


Forse la prossima volta devo leggere meglio la sinossi. Domenica pomeriggio molto postprandiale, quasi precena. Dico «Ci vediamo un film?». La ms: «Sì, ma una cosa leggera». Spulcio un po’, poi dico «Synecdoche, New York!». «Eh?» fa lei. «Il primo film da regista di Charlie Kaufmann, lo sceneggiatore di Gondry» spiego io. Approvato. Piazzo la chiavetta e il film inizia. E ridiamo. Anche tanto. Perché il lugubre incipit con la radio in sottofondo che celebra l’autunno con una poesia mortifera, e la cacca verde della bambina, e Pinter che è morto, anzi no ha vinto il Nobel, sono da schiantarsi, almeno secondo noi. Poi le cose si complicano, si avvitano, si amplificano a dismisura. Iniziano i giochi di specchi, i doppi sensi, i nomi che hanno suoni simili (ottimo lavoro ai sottotitoli, complimenti!), i cognomi significanti. E la storia di Philip Seymour Hoffman, regista teatrale ipocondriaco che dopo l’abbandono della moglie, pittrice alternativa di quadri minuscoli, e la quasi contestuale vincita di un premio in denaro, decide di utilizzare i soldi per mettere su lo spettacolo della sua vita (inteso sia come memorabile, sia come rappresentazione di quello che gli accade), diventa uno strano moloch di ardua lettura. Mentre si affastellano le apparizioni (cast ricchissimo che comprende tra gli altri Catherine Keener, Michelle Williams, Samantha Morton e Jennifer Jason Leigh) e, tra metateatro e metacinema, i personaggi si sdoppiano, si triplicano (perché per interpretare gli attori che interpretano i personaggi ci vogliono altri attori, giusto?), passano gli anni (più di venti) e si continua a non andare in scena: è una prova eterna, uno psicodramma infinito, un monta e smonta continuo, mentre vita e spettacolo si intrecciano inevitabilmente. Tutti, moglie, figlia, genitori, muoiono intorno al protagonista, le cui patologie continuano ad aumentare. Ma proprio quando sembra che Kaufmann abbia perso la brocca o il filo o tutt'e due, occazzo arriva il finale, che è puro genio ed è affidato a una Dianne Wiest straordinaria. Un esordio esagerato, imperfetto, prolisso, ma interessantissimo: d'altro canto, come aspettarsi qualcosa di diverso da Charlie Kaufmann?