Eh, la Spagna. Quel loro aver buttato nel cesso clero e duce, quel loro saper vivere, quella lingua che
tutte le volte sembra che l’hai dimenticata, poi ti accorgi che
visto che non l’hai mai avuta è un po’ difficile perderla, e
tiri fuori le parole più difficili da chissà quale cassetto del
cervello. Lanzarote: sottotitolo «e io che mi pensavo che fosse
tutto un ciabattare mare-spiaggia-mare». Cosa mi è rimasto?
Vediamo. I colori: una sequenza pressoché ininterrotta di rosso e
nero e bianco e grigio macchiati di verde. Il nostro grande
appartamento pagato quasi un cazzo. Lo spumante a colazione. L’uomo
con la birra in mano, sempre. Il sosia di Peter Griffin. Le opere
della sala principale del museo d’arte contemporanea di Arrecife e
la sua guida surreale. La sciatteria del ristorante stile James Bond
del medesimo museo. Famara che ti fa venir voglia di saper surfare. I cinque chilometri di strada sterrata per andare a Papagayo. Charco de Palo con il suo naturismo totalmente libero da dogmi. Il panorama lunare di Timanfaya, ancora più spettacolare in
quella perfetta giornata uggiosa. La spiaggetta nel centro di
Playa Blanca. Gli arredi della Fondazione César Manrique. Le chiese
chiuse come le cosce tese quando ti vuoi confessare (non era così?). La
degustazione di vini lungo La Geria. Il pesce, il mojo verde, l’aglio
in ogni dove. Lo spettacolare ristorantino fighettino in uno dei
posti più sfigati dell’isola. Il ronmiel, che sarà anche dolce ma
freddo ha il suo perché. La partita di chissacchì con chissacché
che stava lì in sottofondo mentre noi facevamo qualcosa di molto più
vero, più bello, più importante.
sabato 30 giugno 2012
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ogni viaggio, anche il più semplice, nasconde sogni.
RispondiEliminaCosce (tese) chiuse come le chiese. Tiè.
RispondiEliminamiiiiii come sei pistina :*
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