sabato 14 febbraio 2015

doppio spettacolo


È San Valentino? E allora parliamo d'ammmore. Generation è la sezione della Berlinale che corrisponde al torinese Sottodiciotto: film in parte per bambini, in parte per ragazzi. Quest’anno ho deciso di dare fiducia a un film che dalla sinossi non prometteva benissimo: già immaginavo una specie di Giulietta e Romeo dei blocks. E invece. E invece 14+, del regista russo Andrey Zaytsev, sorprende già dai divertenti titoli di testa (la ragazza italiana ventenne accanto a me mi ha chiesto se Ciao ragazzi fosse una canzone nuova, ho dovuto spiegarle che Celentano l'ha incisa cinquant'anni fa) e non parla di giovani disadattati (sì, c’è un gruppetto di bulli, ma sono troppo stupidi per fare danni eccessivi): racconta invece, in modo tenero e ironico, mai sdolcinato, moralista o sopra le righe, dell’innamoramento di una coppia di ragazzini nell’era di facebook. La buona sceneggiatura serve egregiamente Gleb Kalyuzhny e Ulyana Vaskovich che, per quello che mi riguarda, vincono il premio per la coppia più bella del festival. I due, tra l’altro, erano seduti dietro di me, ed è stato bellissimo, di tanto in tanto, osservarli mentre si riguardavano sul grande schermo. Ah, visto l’approccio gioioso e, soprattutto, il finale, dimenticatevi di vederlo nelle sale italiane.

venerdì 13 febbraio 2015

il giudizio


Durante un anonimo filmaccio balneare americano visto almeno tredici anni fa su Italia1 in compagnia della DRFM, a un certo punto qualcuno se ne usciva con questa frase: «Sesso, sole, mare: non ne posso più di questa vita!». Io e la DRFM ridemmo senza ritegno e per un po’ diventò l’idiota tormentone delle nostre vacanze. Beh, devo dire che durante la visione di Knight of cups quella frase mi è tornata spesso in mente, così come ho pensato (rivalutandolo) a Somewhere di Sofia Coppola: in fondo anche lì c’è un artista di Hollywood (Christian Bale) scontento del suo lavoro così come di passare da un letto all’altro, scopando un cameo dopo l’altro (Natalie Portman, Cate Blanchett, Imogen Poots…). In più qui c’è il mare, c’è l’acqua, presente ovunque: il “solito” grembo materno? Boh, chissà, però a me è venuta voglia di un tuffo. Ah, c’è una specie di ricerca spirituale (ma dio santo!), c’è la divisione in capitoli con i nomi delle carte dei tarocchi e c’è la natura, tanta natura, troppa natura. Poi cos’altro? Le musiche, pronte a sottolineare inutilmente qualsiasi cosa. Ah, per la gioia della Tiz, il film è per tre quarti parlato fuori campo. Insomma, come ha già scritto qualcuno, Terrence Malick ha fatto per la terza volta lo stesso film. E il pubblico che non fugge o non sbava di adorazione, vi si aggira con la stessa aria stranita, arrabbiata e wtf di Brian Dennehy.

giovedì 12 febbraio 2015

pickin' up good vibrations


Se ci fosse una giustizia di un qualche tipo, avremmo già due candidati forti per la migliore interpretazione maschile agli Oscar 2016. Love and mercy, opera prima del produttore Bill Pohlad, sarebbe molto meno bello senza un Paul Dano da paura e un John Cusack che, con questa interpretazione, metterà a tacere tutti quelli che lo volevano bollito. Presentato a Berlino, il film è la storia di Brian Wilson, il leader dei Beach Boys che, strangolato tra i Beatles e gli Who, sognava di trasformare la sua band in una roba seria. Il disco, “quel” disco, Smile, vedrà la luce soltanto 35 anni dopo. Nel frattempo, i Beach Boys naufragheranno, Wilson si ammalerà di nervi, finirà sotto la curatela di un bastardissimo psichiatra (Paul Giamatti) e si salverà grazie all’ammmore (Elizabeth Banks) vent’anni dopo l’inizio dei suoi guai. La storia è ovviamente vera (Wilson era in sala, e devo dire che è stata un’emozione mica da niente), la maggior parte delle sequenze della registrazione del disco sono realizzate in stile documentaristico e sono davvero impressionanti, Dano canta con la sua voce e ostenta un’oscena pancetta cresciuta per l’occasione, Cusack interpreta con misura e convinzione un Wilson cinquantenne.

mercoledì 11 febbraio 2015

mais quoi, vraiment?


Applausi per il titolo? E dai, su, che ci ho messo tanto impegno! Insomma, si capisce che Journal d'une femme de chambre (in concorso alla Berlinale) non m’è piaciuto? Brutto no, inutile sì. Rifare Il diario di una cameriera che già Renoir e Buñuel avevano trasposto sullo schermo dal romanzo di Octave Mirbeau, aveva un senso se gli si fosse dato qualcosa di particolare, di memorabile, di attuale, chessò. E invece Benoît Jacquot è andato sul sicuro, come se non aspettasse altro che la fila fuori dal Romano la domenica pomeriggio. Léa Seydoux fa sesso anche da vestitissima, lo sapevamo già. Vincent Lindon è la caricatura del villico così come gli altri interpreti sono la caricatura dei borghesi arricchiti di fine Ottocento. Ci si aspetta un colpo d’ala per tutta la durata, e invece nisba. Delusione.

martedì 10 febbraio 2015

un tassinaro a teheran


Jafar Panahi, che fino al 2030, a meno di una grazia o di un colpo di stato non potrà girare film né in Iran né in nessun altro luogo (gli è anche vietato viaggiare), è arrivato alla sua terza pellicola clandestina. Girato tutto all’interno di un’auto, con attori non professionisti, Taxi, visto in concorso alla Berlinale, racconta attraverso le voci e i personaggi più diversi le mille contraddizioni dell’Iran di oggi. Purtroppo, però, anche se fa pensare e non rinuncia a una buona dose di ironia, punzecchia appena e non va mai oltre la superficie. Curiosamente, l’affondo più brutale lo dà la piccola nipote di Panahi, quando legge le regole che le ha dettato la maestra e a cui dovrà attenersi per girare un film “distribuibile” da realizzare con la scuola.

lunedì 9 febbraio 2015

father? yes son? i want to kill you


Il nome di Hal Hartley ai lettori più implumi non dirà nulla ma per noi ragazzi degli anni Novanta noi, quelli che in quel periodo cominciavano ad appassionarsi di cinema indipendente (qualunque cosa significasse), lui e Alexandre Rockwell erano dei punti di riferimento. Poi sono spariti. O perlomeno, sono spariti dagli schermi italiani. Beh insomma tutto ’sto pippotto per dire che Hal Hartley, che in questi anni non ha smesso di fare film, alla Berlinale ha presentato Ned Rifle. Che è il terzo capitolo di una trilogia iniziata con Henry Fool (1997), credo peraltro l’ultimo film di Hartley apparso in Italia, e proseguita con Fay Grim (2006). Se siete curiosi ma non troppo, sappiate che non è strettamente necessario aver visto i primi due per capirci qualcosa. In breve, Fay (Parker Posey) sta per uscire di galera dopo essere stata accusata di alto tradimento. Il figlio Ned (Liam Aiken), cresciuto dalla famiglia di un pastore che lo ha votato alla castità prematrimoniale, decide di cercare suo padre Henry (Thomas Jay Ryan): lo ritiene colpevole dei guai materni e vuole ucciderlo. A complicare il tutto ci si mette una ragazzetta sempre piuttosto svestita interpretata da Aubrey Plaza (sì, la Beth di Life after Beth, bravi). Niente di nuovissimo sotto il sole, ma scritto da dio come Hartley sa fare: il personaggio dello zio poeta che studia da comico per diventare famoso (James Urbaniak) è da antologia.

sabato 7 febbraio 2015

un’ora sola ti vorrei


Ebbene, eccomi a Berlino, con il sole e senza neve. L’inaugurazione, più o meno 55 minuti ma in ritardo di un quarto d’ora (chi è che ride lì davanti al computer pensando a come sono le nostre?), è stata presentata dalla “solita” Anke Engelke, apprezzata ed effettivamente divertente comedian tedesca, che ha dato il suo meglio quando, ignorando clamorosamente Christoph Waltz, prima ha dato il via a una surreale scambio di battute con Udo Kier e l’ex moglie di Fassbinder, quindi si è lanciata a corteggiare James Franco (che, voglio dire, l’avrei fatto anch’io, perdonandogli persino il cicles). Ma a parte il sorriso assassino di James Franco e le battute della Engelke, la serata è stata segnata dal vestito tutt'uno spacco di Juliette Binoche, la quale vince il primo dei miei premi di quest’anno: il premio Milf. Audrey Tatou è ancora troppo giovane e troppo vestita, quindi era fuori gara, ma anche lei promette bene e invecchiando migliora. Boh, comunque, finito lo show è stato anche proiettato il primo film: Nobody wants the night di Isabel Coixet. La regista catalana è quella de La mia vita senza me, ma è anche quella che aveva stuprato Philip Roth con Elegy, quindi ero molto cauto. Alla fine, un film senza infamia e senza lode, ben interpretato ma con un ritmo non sempre coinvolgente e con troppa, troppa neve intorno: insomma, due ore e sentirle tutte. La storia, ispirata a un fatto vero, è quella di Josephine Peary (la Binoche), moglie dell’esploratore che scoprì il Polo Nord, che stanca di aspettare il ritorno del marito decide di andarlo a trovare (comodo, no?) con l’aiuto di Gabriel Byrne (niente paura, muore presto). Al campo base (o quel che l’è) trova invece Aleka (Rinko Kikuchi), anche lei in attesa. In doppia attesa, perché la giovane eschimese è pure incinta. La ragazza ha sempre il sorriso sulle labbra (e i denti sporchi), la Binoche invece è flessibile e simpatica come una scopa su per il culo: alla fine, però, vincerà la solidarietà femminile. Subito prima che si abbatta la sfiga, ovviamente.

giovedì 5 febbraio 2015

e di colpo venne il mese di febbraio


Maddài come passa il tempo! Tipo che mentre voi state leggendo io, neve permettendo, sono appena atterrato a Berlino dove seguirò il festival del cinema e farò il turista parte seconda (nel senso che proseguo quel che ho interrotto l’anno scorso). Attualmente so per certo che vedrò il film d’apertura, una strana storia ambientata al Polo con Juliette Binoche e Gabriel Byrne diretti da Isabel Coixet: è a rischio sòla, ma l’alternativa era un film ambientato in un circo e io i film ambientati nei circhi non li sopporto. A seguire, zompando qua e là, vedrò il nuovo Hal Hartley (è ancora vivo, cari amici degli anni Novanta!), un Tim Roth girato in Messico, Ian McKellen che fa Sherlock Holmes da vecchio, Jacquot che rifà Diario di una cameriera con Léa Seydoux, le anteprime di Pablo Larraín (che così posso parlarne con la poison), Terrence Malick (così posso insultare il cannibale), Peter Greenaway e Jafir Panahi. Dubito che troverò posto per Herzog e Wenders, entrambi con un film in cui c’è James Franco: qui sono nazionalisti fino all’osso, ma non si sa mai. Ci si ritrova sul blog, il computer ce l’ho, la connessione, pare, anche.

mercoledì 4 febbraio 2015

unreal cinema


Mi spiace. Davvero. Però c’è qualcosa di più incazzante (si dirà?) di un film comico che non fa ridere? Ebbene, Italiano medio non fa ridere. L’esordio cinematografico del mitico Maccio Capatonda, che io ho tanto amato per i meravigliosi finti trailer nei programmi della Gialappa’s e anche, in buona parte, per il più recente Mario, è un buco nell’acqua. Non è neanche una questione di tempi diversi: Marcello Macchia (ma che davero si chiama così all’anagrafe?) lo sa bene e, se non altro, evita di gonfiare inutilmente sul grande schermo quello che funziona nel piccolo. Il fatto è che la mira di questa satira che spazia dalle manie ambientaliste all’inevitabile (?) tv, è proprio debole debole e, l’ho già detto?, soprattutto non fa ridere. A poco servono le citazioni cinematografiche, la riproposizione dell’«uomo che usciva la gente», la folgorante scena del concepimento (mentale, ancor prima che fisico) del protagonista o il finale che un po’, vivaddio, sorprende: come diceva mio padre, «neanche se mi solleticano». Peccato, sarà per la prossima.

martedì 3 febbraio 2015

tutto tutto niente niente


Sì, insomma, lo sapevo che il film non era tanto su Stephen Hawkins quanto sulla sua storia d’amore. D’altra parte è ispirato al libro dell’ex moglie… Il problema non è quello. È che tutta l’emozione del trailer non si capisce bene dove e come si disperda in un film che risulta incredibilmente freddo. E io, che ero già lì coi fazzoletti, ho dovuto aspettare l’ultima parte, quella che mi è sembrata più sincera, quella, per capirci, dal «Ti ho amato tanto» in avanti. La teoria del tutto arriva al cuore ma così, di striscio. Colpa di una sceneggiatura prevedibile; vecchia, non classica come nel caso, restando in tema di Oscar, di The imitation game. Certo Eddie Redmayne se li magna tutti (soprattutto una Felicity Jones piuttosto insipida), perché è proprio bravo e la sua è di quelle prove estreme che piacciono tanto alla Academy. Sebbene, guardando il trailer di Birdman (cazzo, non lo vedrò prima del 16!), qualcosa mi dice che potrei preferirgli Michael Keaton.