lunedì 4 febbraio 2013

obbedienza, compiacenza, condiscendenza


Ci sono parole che non uso quasi mai. Parole ormai abusate e logore come calzini bucati, soprattutto certi aggettivi. Però nel caso di Compliance non me ne viene una diversa da disturbante. Esci dalla visione del piccolo, e in buona parte riuscito, film di Craig Zobel con un’ansia e una dose di pessimismo e fastidio nei confronti dell’umanità che all’epoca (fine novembre, Torino Film festival) ho combattuto con la prima arma a mia disposizione: infilarmi in un’altra sala e vedere un altro film. Tanto più che trattasi di storia vera, ripetutasi con modalità simili per 70 volte in 30 stati degli Usa: la proprietaria di un fastfood riceve la telefonata di un poliziotto il quale le chiede di trattenere una delle sue cameriere accusata di furto. Da lì in avanti, una spirale d’angoscia. Perché di fronte all’autorità, sebbene espressa unicamente per telefono, nessuno osa discutere, con conseguenze devastanti per tutti, non solo per la ragazza. Dreama Walker (tanta tv ma anche Gran Torino con Clint Eastwood) è la vittima, Ann Dowd (che ha tentato senza successo di spingere la sua candidatura agli Oscar) anche, gli uomini fanno tutti più o meno figure di merda. Insuccesso in patria, nessuna notizia di un’uscita italiana.


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