giovedì 26 febbraio 2015

l’occhio spento, il viso di cemento


Come promesso a Fascino, l’amico immaginario di poison (lui non ha un blog, che io sappia), domenica mattina sono andato nella multisala comoda non ancora corrotta dall’intervallo, per vedere, insieme a una decina di insonni, mentre tutto intorno era carnevale (giuro!), bambini pazzi per i Pokémon e coppiette in astinenza davanti alle sfumature di grigio, Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza. Ora, il regista svedese Roy Andersson me la può contare da qui a infinito che per il titolo si è ispirato a al quadro Cacciatori nella neve di Pieter Bruegel il Vecchio (fascino e paura i dipinti suoi e del figlio, per me, da sempre): a me sembra un’adorabile presa per il culo di certi polverosi titoli da cineforum anni Settanta. Sbaglierò? Chissà. D’altra parte Andersson gioca e si diverte, non ci sono dubbi. Diviso in brevissimi capitoli in campo lungo, fisso, il film alterna sghignazzi e perplessità, come una versione ripulita e colta di Cinico Tv. Inizia con un delizioso terzetto di episodi sulla morte e prosegue con, tra gli altri, un tizio che ha perso un appuntamento di lavoro, un bar dove un vecchissimo sordo passa le sue giornate a bere, la fine dell'amore di un'improbabile coppia di ballerini, il gayo re Carlo XII che si avvia e torna verso una sconfitta in battaglia (ma lui e la truppa sono totalmente anacronistici rispetto al resto) e, soprattutto, una coppia di disadattati venditori di vecchi e assolutamente non divertenti scherzi di carnevale. Il tutto sulle note di John Brown's body, le cui parole cambiano continuamente in base al contesto. Siete scappati? Io direi che è il caso di dargli un’occhiata, senza preconcetti e con una sana voglia di surrealismo. Il Leone d’Oro a Venezia mi sembra esagerato, ma mi è venuta voglia di vedere i primi due capitoli della sua "trilogia sull'essere un essere umano” (anche questo, a pensarci, un titolo fichissimo).

mercoledì 25 febbraio 2015

col tipico ritmo incalzante di cassa, rullante e charleston


Avevo zompato allegramente Whiplash al Tff perché, qualche anno prima, al medesimo festival avevo visto l’esordio del regista, Guy and Madeline on a park bench: un inutile compitino da scuola di cinema, una presuntuosa robetta in bianconero a base d’ammore e musica che avevo abbastanza detestato. Poi però di Whiplash sono venute fuori le recensioni dei primi blogger, di quelli che scavano nello streaming come cani da tartufo, quindi le candidature all’Oscar, infine l’uscita italiana. E io sono curioso come una scimmia: potevo non vederlo? Risultato: il ragazzo ha fatto molta strada, ma non ha ancora trovato il cuore. Damien Chazelle ha talento. Ha tecnica registica. Ha imparato a usare la musica (e meno male, visto che la musica è l’anima di questo film). Ha anche scelto due attori che funzionano molto bene: J.K. Simmons (Oscar meritato) gigioneggia alla grande a metà strada tra il sergente Hartman e la versione stronza di Miyagi, Miles Teller ha sufficientemente l’aria da batterista bravo ma sfigato che sogna di diventare un mito come Bird sminchiandosi le dita fra lacrime, sudore e sangue. Dici: scusa, ma Charlie "Bird" Parker non suonava il sax? Che c’entra, il ragazzo musicalmente si ispira a Buddy Rich. Purtroppo Rich non è morto giovane, non era triste, pare fosse piuttosto stronzo e ha anche fatto in tempo a fare una figlia che da ragazzina aveva una voce (e una presenza) davvero inquietanti: insomma, non proprio il mito adatto a uno sfigato un po’ fiero di esserlo. Di conseguenza, molto meglio Charlie Parker e l’aneddoto su cui ruota tutto il film: pare che Bird sia diventato Bird solo dopo aver schivato un piatto lanciatogli addosso da un furibondo Jo Jones. E a forza di sentirlo ripetere, ’sto benedetto aneddoto, a un certo punto mi è apparso il buon vecchio Clint Eastwood con una sedia da regista in mano, pronto a scaraventarla sul malcapitato Chazelle: così la prossima volta magari farà un vero cult, e non un film che vive di una prima mezz’ora spettacolare, di un finale dal ritmo strepitoso, ma anche di una parte centrale fiacca e prevedibile, compresi il suicidio e l’inutile parentesi sentimentale che salverei solo per la scena della pizzeria.

lunedì 23 febbraio 2015

di cosa parliamo quando parliamo d'autore


Spoiler: questa recensione forse non vi piacerà. Ok, io un po’ me lo sentivo. Ho un sesto senso per certe cose. Il giovedì apro la pagina del cinema su Vivimilano (niente battutacce, su) e leggo quei due simpaticoni di Pezzotta e Mazzarella: talvolta sono d’accordo con loro, talvolta no, ma quando leggo le loro recensioni cattive su film che a tutti gli altri sono piaciuti, occazzo, è quasi matematico che non mi piaceranno o mi lasceranno quantomeno perplesso. Finalmente ho visto Birdman o L'imprevedibile virtù dell'ignoranza, trionfo agli Oscar di stanotte. Una bellissima idea, diventata una bella storia girata da Alejandro González Iñárritu con un godibile tot di furberie (la musica spettacolare che entra ed esce anche “dal vivo”, gli infiniti finti piani sequenza…). Un film interpretato anche molto molto bene: Michael Keaton (sarebbe stato un Oscar meritatissimo) e Edward Norton danno prove eccellenti, ma anche Emma cheocchigrandichehai Stone, Naomi Watts e tutto il resto della truppa. Però. Però ha una prima parte che, per stereotipi, sembra l’equivalente de Il cigno nero ambientato nel mondo del teatro di prosa. Ha molti dialoghi che non si possono sentire: alcuni sembrano i commenti al film di quelli che poi si troveranno in pizzeria. Infine c’è qualche malickeria qua e là. Ah, la trama si capisce dove andrà a parare a due terzi (oh, io l’ho capito). Una bella occasione. Un po’ sprecata. Ma almeno viene voglia di rileggere Raymond Carver.

venerdì 20 febbraio 2015

provvisorio l'amore che c'è sì ma forse no


È bello ritrovare una vecchia passione. Che magari non ami più come un tempo, o forse non ami più e basta, però state bene insieme il tempo che state insieme e amen. È più o meno quello che ho pensato guardando a Berlino Eisenstein in Guanajuato, il nuovo film di Peter Greenaway. Un po’ la temevo questa mezza biografia del mitico regista russo venuto in Centro America per girare Que viva Mexico!, ma ho dovuto ricredermi. Dopo le deviazioni onanistiche de Le valigie di Tulse Luper, Greenaway torna alla grande, fa sorridere, riempie lo schermo e il cuore. Non so se Sergej Ėjzenštejn fosse davvero il gayo fuori di testa dipinto dal regista gallese, fatto sta che è impossibile non appassionarsi al suo modo di vedere il cinema e, soprattutto, la vita. Greenaway non rinuncia quasi a nessuno dei suoi vezzi (compreso l'infinito finto piano sequenza del litigio a colazione), ma non sono quasi mai fine a se stessi: li mette al servizio di uno strepitoso, incontenibile (anche fisicamente) Elmer Bäck, E, ripeto, ci si diverte. A tratti ci si emoziona. Quasi sempre, se un po’ si ama il cinema, si segue a bocca aperta.

giovedì 19 febbraio 2015

poliziotto di contrabbando


Ma com’è che i film belli con Tim Roth da un po’ di tempo girano solo per festival? Temo che, dopo The liability, accadrà lo stesso per questo 600 millas, opera prima di Gabriel Ripstein, regista messicano figlio del più celebre Arturo. Il bello è che parte come una roba quasi banalotta, con due ragazzetti che sognano di fare i gangster spacciando armi e droga fra Usa e Messico e, a due terzi, si trasforma in una caccia all’uomo con tempi dilatatissimi da cardiopalma stile Tarantino (uh, la scena della colazione!) per finire con un finale inaspettato e bastardissimo da applausi. Forse una delle vere sorprese di Berlino.

mercoledì 18 febbraio 2015

la verità ti fa male lo so


Ma sono proprio contento che l’Orso di cristallo (giuro, esiste), ovvero il premio di noiggiovani al film della sezione Generation, sia andato a Flocken di Beata Gårdeler. Che non è propriamente un film per ragazzi, almeno non nell’accezione italiana. Ma in quella nordeuropea sì, tant’è che si tratta di una pellicola svedese. La storia è quella di uno stupro non creduto, in una piccola città bastardo posto dove tutti sono amici finché tutto va bene, salvo bastonarsi lato sensu e lato proprio quando i conti non tornano, specie se la vittima ha una madre smandrappatissima e il violentatore è uno dei ragazzi più popolari della scuola. Insomma non un film da tarallucci e vino. Ah, (spolier) la foto sotto è solo la migliore che ho trovato: non immaginatevi lacrime e sangue, a parte un pestaggio e un cavallo morto. La protagonista, Fatime Azemi, è perfetta, ma anche il resto del cast non scherza. Non ci si annoia mai, in compenso ci si incazza tantissimo.

martedì 17 febbraio 2015

e fuori nevica


Ho fatto bene ad aspettare qualche giorno prima di scrivere del nuovo film di Wim Wenders, presentato alla Berlinale insieme ad alcuni dei suoi migliori film del passato in occasione della consegna dell'Orso d'oro alla carriera. Il fatto è che Everything will be fine non sembra un film di Wim Wenders, e questo, lì per lì, ti spiazza un po’. E poi, dopo una parte iniziale notevole, non sempre regge il giusto ritmo per le sue due ore di durata. Tuttavia, metabolizzando, dici «cazzo». Sebbene non esente da difetti (la lunghezza in primis, ma anche il fatto che l’unico a “invecchiare” verosimilmente sia il bambino), questo drammone dalla sceneggiatura essenziale, che vede nell’arco di dieci anni evolversi quasi sempre in parallelo le esistenze di Charlotte Gainsbourg e di James Franco, colpevole di averle ucciso accidentalmente uno dei due figli investendolo con l’auto, funziona. E fa male, e scava, e qualcosa, prima o poi, dentro di noi trova. Forse non un Wenders fondamentale, ma un film sincero, doloroso, pieno.

lunedì 16 febbraio 2015

non è una berlinale per animalisti


Non l’avrei mai detto, ma sono contento che a Berlino l'Orso d'oro sia andato a Pablo Larraín. Ah, non l'ha vinto lui? Solo quello d'argento? Primo premio politico a Taxi? Vabbè, facciamo così: il “mio” premio berlinese va a El club. Sorpresa, poison? Ti fidi una volta di me? Insomma, lo sappiamo: Larraín è uno di quei registi che vuole essere sgradevole. Non come Malick: sgradevole come Gaspard Noé, per dire. Uno il cui film più “gradevole” è No-I giorni dell’arcobaleno, uno che ci colse in contropiede, mi lasciò perplesso e fece cacare in molti, quando a Torino anni fa si fece conoscere con Tony Manero. Tuttavia, ho sempre pensato che fosse un regista interessante. Ed El club è probabilmente la sua opera migliore (ma non ho visto Fuga, il suo debutto). Un gruppetto di preti (tra i quali l’immancabile Alfredo Castro), perlopiù pedofili ma non solo, che la chiesa ha isolato in una villetta dove vivono dimenticati da dio e dagli uomini, sono accuditi da una ex suora che ha anche lei una storia tremenda alle spalle; il loro passatempo principale è allenare un greyhound che corre e vince quasi sempre, rimpinguando le casse del gruppo. Poi arriva un altro prete e le cose si complicano. Il regista cileno stavolta mette da parte quasi totalmente l’elaborazione dell’incubo Pinochet e prende di mira la chiesa con un pamphlet durissimo e crudele, uggioso e a tratti claustrofobico, dal finale senza speranza, ma da cui si esce davvero soddisfatti. Poveri cani, che fanno compagnia all’orso bianco di Nobody wants the night, al cavallo di Flocken (ne parlerò dopodomani), alle bestie vivisezionate di Angelica (ne parlerò, forse, più in là).

sabato 14 febbraio 2015

doppio spettacolo


È San Valentino? E allora parliamo d'ammmore. Generation è la sezione della Berlinale che corrisponde al torinese Sottodiciotto: film in parte per bambini, in parte per ragazzi. Quest’anno ho deciso di dare fiducia a un film che dalla sinossi non prometteva benissimo: già immaginavo una specie di Giulietta e Romeo dei blocks. E invece. E invece 14+, del regista russo Andrey Zaytsev, sorprende già dai divertenti titoli di testa (la ragazza italiana ventenne accanto a me mi ha chiesto se Ciao ragazzi fosse una canzone nuova, ho dovuto spiegarle che Celentano l'ha incisa cinquant'anni fa) e non parla di giovani disadattati (sì, c’è un gruppetto di bulli, ma sono troppo stupidi per fare danni eccessivi): racconta invece, in modo tenero e ironico, mai sdolcinato, moralista o sopra le righe, dell’innamoramento di una coppia di ragazzini nell’era di facebook. La buona sceneggiatura serve egregiamente Gleb Kalyuzhny e Ulyana Vaskovich che, per quello che mi riguarda, vincono il premio per la coppia più bella del festival. I due, tra l’altro, erano seduti dietro di me, ed è stato bellissimo, di tanto in tanto, osservarli mentre si riguardavano sul grande schermo. Ah, visto l’approccio gioioso e, soprattutto, il finale, dimenticatevi di vederlo nelle sale italiane.

venerdì 13 febbraio 2015

il giudizio


Durante un anonimo filmaccio balneare americano visto almeno tredici anni fa su Italia1 in compagnia della DRFM, a un certo punto qualcuno se ne usciva con questa frase: «Sesso, sole, mare: non ne posso più di questa vita!». Io e la DRFM ridemmo senza ritegno e per un po’ diventò l’idiota tormentone delle nostre vacanze. Beh, devo dire che durante la visione di Knight of cups quella frase mi è tornata spesso in mente, così come ho pensato (rivalutandolo) a Somewhere di Sofia Coppola: in fondo anche lì c’è un artista di Hollywood (Christian Bale) scontento del suo lavoro così come di passare da un letto all’altro, scopando un cameo dopo l’altro (Natalie Portman, Cate Blanchett, Imogen Poots…). In più qui c’è il mare, c’è l’acqua, presente ovunque: il “solito” grembo materno? Boh, chissà, però a me è venuta voglia di un tuffo. Ah, c’è una specie di ricerca spirituale (ma dio santo!), c’è la divisione in capitoli con i nomi delle carte dei tarocchi e c’è la natura, tanta natura, troppa natura. Poi cos’altro? Le musiche, pronte a sottolineare inutilmente qualsiasi cosa. Ah, per la gioia della Tiz, il film è per tre quarti parlato fuori campo. Insomma, come ha già scritto qualcuno, Terrence Malick ha fatto per la terza volta lo stesso film. E il pubblico che non fugge o non sbava di adorazione, vi si aggira con la stessa aria stranita, arrabbiata e wtf di Brian Dennehy.

giovedì 12 febbraio 2015

pickin' up good vibrations


Se ci fosse una giustizia di un qualche tipo, avremmo già due candidati forti per la migliore interpretazione maschile agli Oscar 2016. Love and mercy, opera prima del produttore Bill Pohlad, sarebbe molto meno bello senza un Paul Dano da paura e un John Cusack che, con questa interpretazione, metterà a tacere tutti quelli che lo volevano bollito. Presentato a Berlino, il film è la storia di Brian Wilson, il leader dei Beach Boys che, strangolato tra i Beatles e gli Who, sognava di trasformare la sua band in una roba seria. Il disco, “quel” disco, Smile, vedrà la luce soltanto 35 anni dopo. Nel frattempo, i Beach Boys naufragheranno, Wilson si ammalerà di nervi, finirà sotto la curatela di un bastardissimo psichiatra (Paul Giamatti) e si salverà grazie all’ammmore (Elizabeth Banks) vent’anni dopo l’inizio dei suoi guai. La storia è ovviamente vera (Wilson era in sala, e devo dire che è stata un’emozione mica da niente), la maggior parte delle sequenze della registrazione del disco sono realizzate in stile documentaristico e sono davvero impressionanti, Dano canta con la sua voce e ostenta un’oscena pancetta cresciuta per l’occasione, Cusack interpreta con misura e convinzione un Wilson cinquantenne.

mercoledì 11 febbraio 2015

mais quoi, vraiment?


Applausi per il titolo? E dai, su, che ci ho messo tanto impegno! Insomma, si capisce che Journal d'une femme de chambre (in concorso alla Berlinale) non m’è piaciuto? Brutto no, inutile sì. Rifare Il diario di una cameriera che già Renoir e Buñuel avevano trasposto sullo schermo dal romanzo di Octave Mirbeau, aveva un senso se gli si fosse dato qualcosa di particolare, di memorabile, di attuale, chessò. E invece Benoît Jacquot è andato sul sicuro, come se non aspettasse altro che la fila fuori dal Romano la domenica pomeriggio. Léa Seydoux fa sesso anche da vestitissima, lo sapevamo già. Vincent Lindon è la caricatura del villico così come gli altri interpreti sono la caricatura dei borghesi arricchiti di fine Ottocento. Ci si aspetta un colpo d’ala per tutta la durata, e invece nisba. Delusione.

martedì 10 febbraio 2015

un tassinaro a teheran


Jafar Panahi, che fino al 2030, a meno di una grazia o di un colpo di stato non potrà girare film né in Iran né in nessun altro luogo (gli è anche vietato viaggiare), è arrivato alla sua terza pellicola clandestina. Girato tutto all’interno di un’auto, con attori non professionisti, Taxi, visto in concorso alla Berlinale, racconta attraverso le voci e i personaggi più diversi le mille contraddizioni dell’Iran di oggi. Purtroppo, però, anche se fa pensare e non rinuncia a una buona dose di ironia, punzecchia appena e non va mai oltre la superficie. Curiosamente, l’affondo più brutale lo dà la piccola nipote di Panahi, quando legge le regole che le ha dettato la maestra e a cui dovrà attenersi per girare un film “distribuibile” da realizzare con la scuola.

lunedì 9 febbraio 2015

father? yes son? i want to kill you


Il nome di Hal Hartley ai lettori più implumi non dirà nulla ma per noi ragazzi degli anni Novanta noi, quelli che in quel periodo cominciavano ad appassionarsi di cinema indipendente (qualunque cosa significasse), lui e Alexandre Rockwell erano dei punti di riferimento. Poi sono spariti. O perlomeno, sono spariti dagli schermi italiani. Beh insomma tutto ’sto pippotto per dire che Hal Hartley, che in questi anni non ha smesso di fare film, alla Berlinale ha presentato Ned Rifle. Che è il terzo capitolo di una trilogia iniziata con Henry Fool (1997), credo peraltro l’ultimo film di Hartley apparso in Italia, e proseguita con Fay Grim (2006). Se siete curiosi ma non troppo, sappiate che non è strettamente necessario aver visto i primi due per capirci qualcosa. In breve, Fay (Parker Posey) sta per uscire di galera dopo essere stata accusata di alto tradimento. Il figlio Ned (Liam Aiken), cresciuto dalla famiglia di un pastore che lo ha votato alla castità prematrimoniale, decide di cercare suo padre Henry (Thomas Jay Ryan): lo ritiene colpevole dei guai materni e vuole ucciderlo. A complicare il tutto ci si mette una ragazzetta sempre piuttosto svestita interpretata da Aubrey Plaza (sì, la Beth di Life after Beth, bravi). Niente di nuovissimo sotto il sole, ma scritto da dio come Hartley sa fare: il personaggio dello zio poeta che studia da comico per diventare famoso (James Urbaniak) è da antologia.

sabato 7 febbraio 2015

un’ora sola ti vorrei


Ebbene, eccomi a Berlino, con il sole e senza neve. L’inaugurazione, più o meno 55 minuti ma in ritardo di un quarto d’ora (chi è che ride lì davanti al computer pensando a come sono le nostre?), è stata presentata dalla “solita” Anke Engelke, apprezzata ed effettivamente divertente comedian tedesca, che ha dato il suo meglio quando, ignorando clamorosamente Christoph Waltz, prima ha dato il via a una surreale scambio di battute con Udo Kier e l’ex moglie di Fassbinder, quindi si è lanciata a corteggiare James Franco (che, voglio dire, l’avrei fatto anch’io, perdonandogli persino il cicles). Ma a parte il sorriso assassino di James Franco e le battute della Engelke, la serata è stata segnata dal vestito tutt'uno spacco di Juliette Binoche, la quale vince il primo dei miei premi di quest’anno: il premio Milf. Audrey Tatou è ancora troppo giovane e troppo vestita, quindi era fuori gara, ma anche lei promette bene e invecchiando migliora. Boh, comunque, finito lo show è stato anche proiettato il primo film: Nobody wants the night di Isabel Coixet. La regista catalana è quella de La mia vita senza me, ma è anche quella che aveva stuprato Philip Roth con Elegy, quindi ero molto cauto. Alla fine, un film senza infamia e senza lode, ben interpretato ma con un ritmo non sempre coinvolgente e con troppa, troppa neve intorno: insomma, due ore e sentirle tutte. La storia, ispirata a un fatto vero, è quella di Josephine Peary (la Binoche), moglie dell’esploratore che scoprì il Polo Nord, che stanca di aspettare il ritorno del marito decide di andarlo a trovare (comodo, no?) con l’aiuto di Gabriel Byrne (niente paura, muore presto). Al campo base (o quel che l’è) trova invece Aleka (Rinko Kikuchi), anche lei in attesa. In doppia attesa, perché la giovane eschimese è pure incinta. La ragazza ha sempre il sorriso sulle labbra (e i denti sporchi), la Binoche invece è flessibile e simpatica come una scopa su per il culo: alla fine, però, vincerà la solidarietà femminile. Subito prima che si abbatta la sfiga, ovviamente.

giovedì 5 febbraio 2015

e di colpo venne il mese di febbraio


Maddài come passa il tempo! Tipo che mentre voi state leggendo io, neve permettendo, sono appena atterrato a Berlino dove seguirò il festival del cinema e farò il turista parte seconda (nel senso che proseguo quel che ho interrotto l’anno scorso). Attualmente so per certo che vedrò il film d’apertura, una strana storia ambientata al Polo con Juliette Binoche e Gabriel Byrne diretti da Isabel Coixet: è a rischio sòla, ma l’alternativa era un film ambientato in un circo e io i film ambientati nei circhi non li sopporto. A seguire, zompando qua e là, vedrò il nuovo Hal Hartley (è ancora vivo, cari amici degli anni Novanta!), un Tim Roth girato in Messico, Ian McKellen che fa Sherlock Holmes da vecchio, Jacquot che rifà Diario di una cameriera con Léa Seydoux, le anteprime di Pablo Larraín (che così posso parlarne con la poison), Terrence Malick (così posso insultare il cannibale), Peter Greenaway e Jafir Panahi. Dubito che troverò posto per Herzog e Wenders, entrambi con un film in cui c’è James Franco: qui sono nazionalisti fino all’osso, ma non si sa mai. Ci si ritrova sul blog, il computer ce l’ho, la connessione, pare, anche.

mercoledì 4 febbraio 2015

unreal cinema


Mi spiace. Davvero. Però c’è qualcosa di più incazzante (si dirà?) di un film comico che non fa ridere? Ebbene, Italiano medio non fa ridere. L’esordio cinematografico del mitico Maccio Capatonda, che io ho tanto amato per i meravigliosi finti trailer nei programmi della Gialappa’s e anche, in buona parte, per il più recente Mario, è un buco nell’acqua. Non è neanche una questione di tempi diversi: Marcello Macchia (ma che davero si chiama così all’anagrafe?) lo sa bene e, se non altro, evita di gonfiare inutilmente sul grande schermo quello che funziona nel piccolo. Il fatto è che la mira di questa satira che spazia dalle manie ambientaliste all’inevitabile (?) tv, è proprio debole debole e, l’ho già detto?, soprattutto non fa ridere. A poco servono le citazioni cinematografiche, la riproposizione dell’«uomo che usciva la gente», la folgorante scena del concepimento (mentale, ancor prima che fisico) del protagonista o il finale che un po’, vivaddio, sorprende: come diceva mio padre, «neanche se mi solleticano». Peccato, sarà per la prossima.

martedì 3 febbraio 2015

tutto tutto niente niente


Sì, insomma, lo sapevo che il film non era tanto su Stephen Hawkins quanto sulla sua storia d’amore. D’altra parte è ispirato al libro dell’ex moglie… Il problema non è quello. È che tutta l’emozione del trailer non si capisce bene dove e come si disperda in un film che risulta incredibilmente freddo. E io, che ero già lì coi fazzoletti, ho dovuto aspettare l’ultima parte, quella che mi è sembrata più sincera, quella, per capirci, dal «Ti ho amato tanto» in avanti. La teoria del tutto arriva al cuore ma così, di striscio. Colpa di una sceneggiatura prevedibile; vecchia, non classica come nel caso, restando in tema di Oscar, di The imitation game. Certo Eddie Redmayne se li magna tutti (soprattutto una Felicity Jones piuttosto insipida), perché è proprio bravo e la sua è di quelle prove estreme che piacciono tanto alla Academy. Sebbene, guardando il trailer di Birdman (cazzo, non lo vedrò prima del 16!), qualcosa mi dice che potrei preferirgli Michael Keaton.

lunedì 2 febbraio 2015

dimenticare ai tempi dell’iphone


Diciamolo subito: non siamo davanti a un gran film, ma a un buon film sì. Magari di quelli da vedere con la coperta sulle gambe, fuori un tempo di merda e la tv che qualcuno ha lasciato accesa. Avevo letto giudizi un po’ troppo severi su Still Alice. Anche paragoni inopportuni con film che avevano la stessa tematica. Ma contrariamente a Il ricordo di belle cose o Lontano da lei, nel film di Wash Westmoreland e Richard Glatzer (registi del bel La quinceañera ma anche, in precedenza, di porno gay che ovviamente la mia curiosità mi farà recuperare) non c’è l’ammmore: Alec Baldwin, sempre più bue grasso di Carrù, (spoiler) a un certo punto se la squaglia. E sì, ci sono le figlie, l’alternativa Kristen Stewart e l’inquadratissima Kate Bosworth, ma il film è Julianne Moore. Il resto è come i cetriolini nei ristoranti di New York: stanno lì sempre, in tutti i piatti, anche se non li mangia nessuno. Certo, la Moore ha dato prove migliori, più meritevoli della statuetta, ma non ditemi che stavolta non se la merita. Ah, ho iniziato a commuovermi dopo 20 minuti. Io i film sulla perdita di memoria non li posso vedere, lo sapevate no?