giovedì 21 maggio 2015

e poi se la gente sa, e la gente lo sa che sai parlare di cinema


Sto per andare a pranzo quando il mio collega E. mi ferma e mi chiede «Hai già visto Mia madre?». E insomma, è bello che cinque o sei dei miei colleghi siano sempre curiosi di sapere cosa penso di un film. Poi però guardo l’orologio. E non per fare quello a cui cade la penna, anche se taccio spesso di ipocrisia quelli che la penna la tengono in mano, magari a mezz’asta, quei cinque, dieci, venti interminabili minuti in più. «Ne parliamo alle due e mezza?» rilancio io. Perché in realtà non so bene cosa dirgli, tanto che non so bene neanche cosa scriverne qui. Ma poi cedo alla lusinga e abbozzo due frasi, tre, quattro. Ho visto Mia madre una domenica mattina a Milano, presente Nanni Moretti. Mi aspettavo un film diverso: il titolo, in fondo, un po’ inganna un po’ no. Non è la storia di una persona che muore, ma è l’elaborazione di un lutto, fin dall’inizio. Una doppia elaborazione, checché ne dica il regista. Perché, se così non fosse, Moretti non avrebbe usato libri, mobili, vestiti di sua madre per creare il personaggio interpretato (splendidamente, ça va sans dire) da Giulia Lazzarini. Di quella mattina però ricordo le domande stupide di due psicologhe della domenica (beh, in fondo era domenica!) e la docilità, la disponibilità di un Moretti che non ti aspetti. E poi il senso di disagio dato dal fatto che, a parte quelle due scene di cui ho già parlato qui e in parte per il finale, non ho pianto. È come se il film mi fosse arrivato solo fino a un certo punto. Come se John Turturro, fenomenale quanto eccessivo, scatenato nelle sue improvvisazioni (il sogno in macchina e il film raccontato in osteria sono opera sua), avesse alleggerito un po’ troppo il carico che mi aspettavo di portare. Oh, ma poi c’è Margherita Buy. C’è la scena in cui si affaccia al balcone e io penso «Quanto è sempre bella?!?» e - tac - le guardo i piedi. No, nessun feticismo, ma penso a una delle prime sue apparizioni tv, timidissima al Costanzosciò, in cui parlava con imbarazzo delle sue fette. O alla prima e unica volta che l’ho vista dal vivo, in stazione centrale, sempre Milano, mentre prende un taxi con Silvio Orlando, ai tempi dello splendido Fuori dal mondo. Mi dico che Moretti è riuscito a trasformarla in Moretti in un modo assolutamente perfetto. E il sogno con la fila al Capranichetta è grande cinema, puro.

mercoledì 20 maggio 2015

plokhoyvolya


Affronto la sesta serie di Dexter (vabbè, ma allora ditelo che da assuefazione!), frugo nel cruscotto della mia DeLorean dove trovo cose degne del carbonio-14, mi preparo a una caccia al tesoro con la poison e la tiz, confermo che al Salone del Libro tante, troppe persone non sanno quanto costa, in tutti i sensi, un libro. In tutto ciò, ho visto Leviathan di Andrei Zvyagintsev. E le prime cose che ho pensato sono state: 1) che brava la doppiatrice del giudice, pazzesca; 2) questo film dovrebbe vederlo la ms. Non è un film che mi ha fatto impazzire, è un po’ tanto lungo e non solo per la durata, però ci sono delle cose veramente notevoli. Innanzitutto, il finale, spietato, lugubre, cattivo. Gli interpreti, con quell’aria da Verga russo. Il dialogo col prete, inquadratura fissa, micidiale, da studiare nelle scuole di cinema. La vodka, che se mi piacesse sarei uscito con una voglia di sbronza colossale. Quel mare di Barents che sembra più o meno un block salmastro. E la scena del tiro a segno in spiaggia, che racconta della Russia di oggi più di un numero di Internazionale.

martedì 12 maggio 2015

il 730 è il mio fantasma del natale passato


Forse non era la serata giusta. Voglio dire, vedo la foto di una persona a cui sono stato legato tanti anni fa, che oggi è tale e quale a tanti anni fa, forse persino meglio, in un bianco e nero che quasi mi commuove, ché vorrei farle io, ’ste foto. E poi sono lì che, mentre spignatto, suona alla porta un cosetto magro magro un poco mammulino (come che vuol dire mammulino? ma se non conoscete le lingue ditelo!) e che, se avesse il testone, somiglierebbe a me alla sua età (ma mi somiglia già, ché alla sua età anch'io ero un viavai solitario in un balcone), con la mamma dietro che si scusa, ma lui ci teneva tanto a dare i confetti a tutto il palazzo per la sua comunione. E io penso: no, questa cosa qui io non l’avrei proprio fatta alla sua età. E poi zietta. Che mi fa morire, in senso proprio e figurato, che non ricorda il nome del pesce che cucinerà ma si sbatte finché non me lo dice e penso «la adoro» ma subito dopo mi fa incazzare per qualcos’altro. Azz, Margherita Buy e la macchina contro il muro, Margherita Buy e «sono solo tre passi» e penso a mia madre, senza corsivo, che mica si parla di film, stasera. Ah, già, il setteetrenta. A caccia di ricevute mi imbatto in gatto e gatta. Ecco, la frittata è fatta, anche se sto cucinando spezzatino.