Dopo The artist, pensi, son tutti bravi a battere il ferro finché è caldo, a scopiazzare. Poi, sei al Tff 2012 e trovi ben due film muti, diversissimi tra loro e tanto diversi da quello di Hazanavicius: da entrambi ti aspettavi sbadigli e lamate, di entrambi di ricrederai. Vabbuò, tutto ciò per dire che oggi, incredibile ma vero, uno dei due film (dell’altro vi parlerò probabilmente il prossimo venerdì a proposito degli inediti del Tff) esce in Italia: si tratta di Blancanieves e, no, non è un film per bambini, anche se il soggetto si ispira alla celebre favola dei fratelli Grimm. Pablo Berger, già regista del simpatico Torremolinos 73, qui mostra ben altre ambizioni, raccontando con la giusta dose di ironia la storia di Carmen, gnocca torera e figlia di torero, vessata dalla matrigna che tenta anche di ucciderla e, ovviamente, salvata da sette nani anch’essi matadores. Se The artist è in fondo un film anni Trenta a cui è stato tolto il sonoro, Blancanieves è un’operazione molto più “credibile” e raffinata che omaggia tutto l’omaggiabile del cinema muto anni Venti, dal mainstream al surrealismo. Macarena García, tanta tv e tanti musical, da muta è una rivelazione; Maribel Verdú interpreta la matrigna, Ángela Molina la nonna.
giovedì 31 ottobre 2013
mercoledì 30 ottobre 2013
in fila per cinque/6
Incredibile ma vero, siamo arrivati alle soglie del 2000 (dio santo, il bello del nuovo secolo è che nessuno adesso può più usare quella cazzo di espressione). Dopo una scelta onestamente meno faticosa rispetto alla settimana scorsa, i miei film dell’anno sono questi qua:
1994 - Ed Wood
Il film della coppia Tim Burton-Johnny Depp che più amo. La storia romanzata del peggior regista di tutti i tempi (giudizio troppo severo, a ben guardare certa roba che circola nelle sale) è un omaggio al cinema come passione, al di là di tutto, persino del talento. Accanto a Depp, un magistrale Martin Landau che ottenne l’Oscar e un altro botto di premi per la sua interpretazione di Bela Lugosi; inoltre Bill Murray, Sarah Jessica Parker, Patricia Arquette e Vincent D'Onofrio nei panni di Orson Welles. Ricostruzione impeccabile, curatissima fotografia in bianco e nero.
Una delle migliori storie d’amore scritte per il cinema. Richard Linklater, incostante quanto interessante sperimentatore, realizza il suo miglior film con una storia semplicissima, così semplice che in altre mani sarebbe diventata banale: un incontro casuale in treno che si trasforma in storia d'amore, o forse no. Dialoghi perfetti, a volte improvvisati o modificati in corso d’opera, Ethan Hawke gran fico, Julie Delpy adorabile. Colonna sonora da non sottovalutare. Secondo capitolo tecnicamente più intrigante, ma il primo resta insuperato. S’intende che sono in attesa spasmodica di vedere (esce domani e io lo aspetto da una vita) l'ultima parte della trilogia. Premio per la regia a Berlino.
1996 - Fargo
Rivisto di recente con grande goduria mia e della ms. Cosa mi piace di questo film dei fratelli Coen? Intanto che è dei fratelli Coen, di cui l’unico indigesto mi resta Crocevia della morte (per tacere dello script di Gambit...). E poi il cast: Frances McDormand incintissima, i “soliti” pazzeschi William H. Macy, Steve Buscemi, Peter Stormare, la neve. Sì, perché è protagonista pure lei, insieme alla desolata provincia americana dove, di solito, non succede una cippa di niente e invece. La scena del tritalegna è celebre, ma quella del vecchio compagno di scuola giapponese mi ha sempre fatto morire. Palma d’Oro per la regia e due Oscar per la Dormand e la sceneggiatura.
Eh eh, questo se lo ricorda qualcuno? Ang Lee, che era arrivato a Hollywood facendo il botto con Ragione e sentimento, con questo film fu sostanzialmente ignorato (se non massacrato), colpevole di avere sputato sul piatto offertogli: ma come, noi ti diamo l’Oscar e tu, brutto muso giallo, l’anno dopo ci distruggi il mito americano? Eppure si tratta senz’altro della sua opera migliore. La storia, ambientata nei giorni del Watergate, è quella di due coppie borghesi tentate dallo scambismo, mentre i figli più o meno adolescenti sono abbastanza lasciati a loro stessi. Cast notevole: Kevin Kline, Joan Allen, Sigourney Weaver, Christina Ricci, Elijah Wood, Tobey Maguire, Katie Holmes.
Lo ammetto: se non lo avessi rivisto poco meno di un anno fa, forse il film di Peter Weir non farebbe parte di questa lista. Non perché all’epoca non mi fosse piaciuto, ma perché maturando (vabbè, piantatela di ridere!) ne ho colto sfumature che probabilmente mi erano sfuggite. Una storia immensa, a tratti geniale, spesso struggente, consapevolmente ambiziosa. Jim Carrey, al suo primo ruolo drammatico, è perfetto. Buona la prova di Ed Harris, sebbene caricato di tic e orpelli stia un po’ sull’orlo della caricatura. Musiche (e comparsata) di Philip Glass. Ignorato agli Oscar, vincitore di tre Golden Globe.
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martedì 29 ottobre 2013
se il tuo occhio ti avesse dato scandalo, ora dovresti essere cieco
Cominciamo da qui: se La vita di Adele (che sarebbe Adèle, ma è stata italianizzata anche nel doppiaggio e non si sa perché) avesse raccontato una storia d’amore etero, forse oggi staremmo ancora a cercarne il torrent su internet. Davvero pensate che un film drammatico di 180 minuti, che ricorda parecchio certo cinema serio francese che andava di moda 20-25 anni fa, avrebbe trovato spazio persino nei multisala tra una scorreggia e una pistolettata? Secondo: fermo restando che le due protagoniste (Léa Seydoux e Adèle Exarchopoulos) oltre a essere molto brave fanno indiscutibilmente sangue e che le scene di sesso (tre, piazzate più o meno a metà pellicola) sono abbastanza realistiche, dov’è l’indugiare sui corpi di cui ho letto quasi ovunque? Abdellatif Kechiche indugia, è vero, ma sugli occhi, le bocche, i nasi, persino sulle lacrime che si confondono nel moccio. Se c’è pornografia è lì, è nel claustrofobico concentrato spazio dei primi o primissimi piani che costituiscono gran parte del film. Lo scandalo non esiste e, ancora una volta, si dimostra che ci sono addetti stampa che sfruculiano il cattolico che è in voi e critici che non scopano o che scopano male. Comunque. Il film è bello, tanto. Coinvolge emoziona, fa incazzare. L’ultima parte, quella più amara e disperata, è la più riuscita: l’incontro al bar e la scena finale meritano da soli il prezzo del biglietto. A trovargli un difetto: certi personaggi a un certo punto escono di scena e non se ne sa più nulla, come se fossero di troppo, in quelle inquadrature così strette.
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venerdì 25 ottobre 2013
e poi lo snob sono io?
Ci sono film che hanno destini strani. Robe che ti pieghi dalle risate mentre li vedi e t’immagini non avranno alcun problema non dico a uscire in Italia (che, vabbè, si sa come non-funziona), ma che sicuramente saranno destinati al successo in patria. E invece... Parlo di Imogene, visto al Tff dell’anno scorso, che intanto Imogene non è più. Ora si chiama Girl most likely, ha avuto un’uscita americana limitata quest’estate e una distribuzione a capocchia strabica nel resto del mondo. Ed è un vero peccato, perché si tratta di una buona commedia, spassosa e mai banale, dal ritmo sostenuto. Kristen Wiig, imminente protagonista del probabilmente inutile remake di Sogni proibiti (ah se spero di sbagliarmi!), qui è una autrice teatrale figadilegno che s’è guadagnata con le unghie e con i denti il suo status upper class. Mollata dal fidanzato, finge un tentato suicidio cui però credono tutti: si ritrova così sola come un cane e perdipiù costretta a tornare a casa della madre (una formidabile Annette Bening in un ruolo ancora più sciroccato di quello interpretato in Ruby Sparks). Completano il quadro un fratello tenerone e disadattato, un gran fico di inquilino (il Darren Criss di Glee) che punta a scoparsela, e Matt Dillon, in grandissimo spolvero, nuovo compagno della madre che si finge (o forse lo è) agente della Cia. Finale prevedibile ma mica tanto, matte risate per buona parte dei 103 minuti. La regia è di Robert Pulcini e Shari Springer Berman, pe’ capisse quelli di American splendor e Cinema verite, qui col cervello beatamente in vacanza ma non per questo meritevoli del massacro che è stato loro riservato dalla critica.
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mercoledì 23 ottobre 2013
in fila per cinque/5
Per dirla con i Neri per Caso, quando c’è sentimento non c’è
mai pentimento: al quinto appuntamento di questa rubrica (in fondo trovate i
link alle puntate precedenti), la mia cinquina di oggi parla tanto, tanto
d’ammmore. Ancora grazie a Frank Manila per l’ideona.
Anche stavolta mi cito, ne scrissi un annetto fa. Ricordo
che il film mi entrò in circolo lentamente. Uscii convinto che fosse finita lì,
ridacchiando per qualche battuta, ma la notte stessa mi rinvennero come dolcissima
peperonata certi dialoghi, certe situazioni, la geometrica perfezione
dell’impianto, quella levità mai sciatta o banale, la gnocchezza e la faccia da
tolla di Meg Ryan. Come se non bastasse, il film di Rob Reiner (sceneggiatura
della povera Nora Ephron) ha contribuito notevolmente alla mia educazione
sentimentale insieme a Io e Annie e Pensavo fosse amore invece era un calesse.
Mi ero innamorato di Aki Kaurismäki l’anno prima con
Leningrad cowboys go America, ma se lì si ghigna, qui viene fuori l’anima più
malinconica, seppure divertente e divertita, del regista finlandese. La storia
di Jean-Pierre Léaud (scelta paracula da e per cinephile, d’accordo, ma quanto
è bravo?!?), sfigatissimo disoccupato causa Thatcher che non riesce a
suicidarsi e ingaggia un killer malato terminale per farsi ammazzare, è una
sorta di versione spassosa e surreale de Le tribolazioni di un cinese in Cina
di Jules Verne. Prefinale bellissimo, cameo e canzone di chiusura di Joe
Strummer.
Titolo banalotto di Frankie and Johnny, sottovalutato film
di Garry Marshall che, fresco del successo di Pretty woman, non riuscirà mai
più a bissarlo. Eppure Michelle Pfeiffer e Al Pacino proletari, lei cameriera
lui cuoco ex galeotto, sono assolutamente credibili. Lei bella come il sole
anche struccata e coi capelli pisciati, lui paraculo come sempre. Lei con il
freno a mano tirato, lui totalmente perso. Scopano, litigano, si innamorano,
fanno pace, non necessariamente in quest’ordine. E io ricordo di essermi fatto
un po’ di pianti, non perché il film sia lacrimoso, ma perché sono un po’
piciu.
Nel mio periodo da cineclub, un’amica mi portò a vedere la
prima parte di questo film-fiume composto da 13 capitoli e diretto dall’allora
sconosciuto Edgar Reitz. Pensavo sarei schiantato dopo dieci minuti, e invece
divenne l’appuntamento fisso del martedì. Noi lì in sala, sempre più o meno le
stesse persone, partecipavamo di quello che accadeva sullo schermo più o meno
come in Nuovo cinema Paradiso e, delle vicissitudini di Hermann, Clarissa,
Ansgar, Helga, nella Monaco a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, finimmo
per parlare come dal parrucchiere si ciancia di Beautiful.
1993 - L’età dell’innocenza
Dal bellissimo romanzo di Edith Wharton (che però ho letto
una dozzina d’anni dopo), ambientato nella irriconoscibile New York di fine
Ottocento, Martin Scorsese trae non il suo film migliore, ma di sicuro la sua
opera più insolita. Ancora Michelle Pfeiffer, sempre bellissima e triste, ma
stavolta nei panni aristocratici di una contessa in fuga dal marito violento da
cui vuole divorziare. Scandalo per tutti, ovviamente, anche perché la donna nel
frattempo si innamora di Daniel Day-Lewis, promesso sposo della scialba cugina
di lei (Winona Ryder). Un solo Oscar, per i costumi realizzati da Gabriella
Pescucci.
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lunedì 21 ottobre 2013
buona domenica
Diretto verso Gravity, in metrò faccio prove tecniche di spostamenti in vista del Tff. Forse trent’anni in due, davanti a me, a sinistra giacchetta di pelle, corti capelli agitati, una parla parla parla; a destra l’altra, look ed espressione da educanda, ascolta ascolta ascolta. Ogni tanto fa domande sbagliate («Se parli greco antico in Grecia ti capiscono?»), ma la ragazza saputa non glielo fa pesare, sorride, le parla di quanto preferirebbe studiare arabo o cinese piuttosto che il latino («Se è una lingua morta ci sarà un motivo?»), percula le esclamazioni della Lucia manzoniana, racconta di Bologna come fosse una meta esotica. L’altra pende dalle sue labbra, vinta, conquistata. Cattivissimo me, di cui stanno per vedere il seguito, diventa argomento comune, forse. A sinistra si ride di gusto, a destra c’è giusto una piega delle labbra, sebbene goduta. Il problema della metro è che è troppo veloce.
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casi
venerdì 18 ottobre 2013
l’ex cattivo tenente
In attesa della nuova edizione del Torino Film Festival (22-30 novembre), mi è venuto in mente di recuperare cinque titoli colpevolmente persi o non recensiti durante le edizioni precedenti e rimasti inediti in Italia. Cinque film, cinque settimane, tutti i venerdì. Ce la farò? Vabbuò, si comincia con Small town murder songs, film canadese del 2010, opera seconda del molto promettente Ed Gass-Donnelly, che invece tre anni dopo si sarebbe schiantato con il sequel de L’ultimo esorcismo. Protagonista un eccellente Peter Stormare, nei panni di un poliziotto dal passato violento, che vive in un paesello disperato dell’Ontario e cerca di redimersi anche attraverso la religione e la compagnia di una noiosa fidanzata conosciuta in chiesa. Tutto bene (?) finché non viene uccisa una ragazza e il principale sospettato è il nuovo, orrido compagno della sua ex, cui Stormare non può avvicinarsi perché glielo impedisce un provvedimento restrittivo dall’ultima volta che ha pestato selvaggiamente qualcuno sotto i suoi occhi. Se vi aspettate azione, lasciate perdere. Se vi aspettate i Coen (come ha scritto qualcuno), riguardate Fargo. Ma non pensiate neanche che ci si martelli le gonadi con la religione in stile Abel Ferrara: questo gelido, breve ma intenso, thriller dove si va per sottrazione, si regge soprattutto sulle spalle, immense, di Stormare. E poi ci sono una sceneggiatura scarna ma efficace, le canzoni dei Bruce Peninsula che contraddistinguono ogni singola scena, una galleria di personaggi meravigliosi nella loro disperazione.
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mercoledì 16 ottobre 2013
in fila per quattro/4
Maddai? Ebbene sì, si continua con i migliori film dal 1969 a oggi secondo me (qui, qui, e qui le puntate precedenti). Cosa resterà di questi anni Ottanta? Scoprivatelo.
Visto che ne ho parlato l’anno scorso, mi cito addosso. Io
’sto film lo conosco quasi a memoria: la scena della charlotte russa con panna,
quella di lui che spia lei da ragazzini e poi la lettura del Cantico dei cantici con una Jennifer
Connelly mai più così bella, la morte di Dominic («Noodles, sono inciampato»),
la cena romantica che finisce con una violenza interminabile che vorresti dire
basta, cazzo, non lo capisci che così è finito tutto?, e poi il confronto
finale tra Noodles e Max... meraviglia assoluta. De Niro immenso, Sergio Leone
purtroppo alla sua ultima regia.
1985 - La messa è finita
Forse il più bel film di Nanni Moretti, di sicuro il
migliore tra i suoi drammatici. La storia di don Giulio, che torna nella sua
città dopo un periodo da missionario e scopre lo sfacelo delle idee e dei
sentimenti in famiglia come tra i vecchi amici, fra adulteri, ipocrisie,
aridità d’animo e finte conversioni, è di quelle da pugno nello stomaco. La
scena dell’aggressione nella fontana mi ha sempre fatto stare un gran male. Nel
cast, tra gli altri, un Vincenzo Salemme incredibilmente impeccabile nel ruolo
del brigatista. Orso d’argento a Berlino.
Non c’è due senza tre: ancora Woody Allen. Che ci volete
fare? Io lo amo in tutte le sue fasi. Beh, quasi tutte, insomma. La storia è
corale, ma come si fa a non solidarizzare con Mickey/Allen, ipocondriaco che
prova tutte le religioni e infine, guardando La guerra lampo dei fratelli Marx,
capisce che il vero significato della vita è spassarsela finché dura? Cast
pazzesco: oltre all’immancabile Mia Farrow, Michael Caine (bravissimo), Barbara
Hershey (ma quanto era sexy?!?), Dianne Wiest, Max von Sydow, Carrie Fisher.
Tre Oscar.
1987 - Il cielo sopra Berlino
Il mio primo Wim Wenders e, che mi ricordi, il mio primo
film tedesco contemporaneo (gli espressionisti, invece, li ho masticati fin da
bambino, giuro). Da un soggetto potenzialmente letale, un film poetico ed
emozionante. La sequenza iniziale, lo sguardo dolente di Bruno Ganz, Peter Falk
ex angelo nei panni di se stesso, le musiche di Nick Cave, la povera Solveig Dommartin
che volteggia sul trapezio. Berlino e Potsdamer Platz come non sono più, in
attesa di scoprirlo di persona, a febbraio, al festival. Mi piscio già addosso
dall’emozione...
1988 – D.o.a. - Cadavere in arrivo
E qui vi voglio, o miei implumi. Quanti conoscono questo
piccolo gioiellino, remake di un thriller del 1949? Rocky Morton e Annabel
Jankel, la coppia che aveva conquistato il mondo con Max Headroom e che qualche
anno dopo si sarebbe suicidata artisticamente con Super Mario Bros., dirige
questo giallo dal ritmo frenetico con Dennis Quaid nel suo periodo divistico,
Meg Ryan ancora preplastica e l’immortale Charlotte Rampling. La corsa contro
il tempo del professor Cornell per non morire avvelenato entro 24 ore e dimostrare la sua innocenza dall'accusa di duplice omicidio è di quelle che tengono incollati allo schermo.
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lunedì 14 ottobre 2013
scusate, dimenticavo
L’altro giorno ero lì che guardavo Sacro Gra (ne parlerò giovedì, credo) e mi è venuto in mente che da queste parti non ho ancora parlato de La grande bellezza (qual è il legame? c’è, fidatevi). Beh, insomma, è un fatto che, ad esempio, a This must be the place avevo dedicato ben due post, qui e qui. Temo che un po’ sia colpa di bottle of smoke, che ha scritto quello che probabilmente avrei scritto io se lui non fosse arrivato prima. In ogni caso, cinque cose le aggiungo pure io. Primo: tutti hanno pensato a La dolce vita, forse più per passaparola che per convinzione, mentre, se proprio vogliamo scomodare Fellini, siamo più dalle parti di Roma. E poi la critica a certa fauna artistico-letteraria appartiene più all’Ettore Scola de La terrazza. Secondo: senza nulla togliere a Toni Servillo, che a me piace moltissimo, forse un attore meno famoso o un non attore avrebbe distratto un po’ meno l’occhio da quella che a me è apparsa come una sorta di immaginifica puntata di Superquark sulle miserie della nostra società bbene. Terzo: non ho trovato per nulla fuori luogo né Carlo Verdone (un po’ parente alla lontana del professor Satta Flores di C’eravamo tanto amati), né Sabrina Ferilli, dottor Jekyll e mister Hyde dei nostri schermi, capace di grandi cose con grandi registi e di infime cose con infimi peracottari. Quarto: chapeau a Serena Grandi, che senza alcun pudore si mostra per quel che è diventata. Quinto: un difetto del film? la Concordia, simbolo troppo scoperto. E forse il finale, tutto sommato prevedibile.
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mercoledì 9 ottobre 2013
in fila per cinque/3
Terza puntata dedicata a quelli che reputo i migliori film dal 1969 a oggi (qui e qui la prima e la seconda parte). L'idea è nata da Frank, il Bradipo ci ha messo le zampine, io ho tirato fuori i ricordi dal baule.
1979 – Apocalypse now
Quando il cinema supera la letteratura. Non sono un fanatico di Cuore di tenebra, né di Joseph Conrad, ma la trasposizione di Francis Ford Coppola (al suo miglior film ex aequo con Il padrino parte seconda) è di una potenza che lascia senza parole, forse la più lucida analisi sulla follia della guerra. È uno dei pochi film che, anche quando rimontato e dilatato (la versione Redux dura 196 minuti!), funziona dalla prima all’ultima sequenza. Mitico Brando nei panni di Kurtz, grandi Martin Sheen, Robert Duvall, Dennis Hopper. Palma d’Oro a Cannes e due premi Oscar.
1980 – Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio
È stata dura, lo ammetto, ma dovevo pur scegliere. E allora ho scelto il folgorante, sguaiato, colorato, folle esordio di Pedro Almodóvar, uscito in Italia, come quasi tutti i primi suoi film, solo dopo il successo di Donne sull’orlo di una crisi di nervi (ai tempi col cazzo che c’era torrent...). Quanta vitalità, quanta capacità di trasformare in genio anche le scene e le battute più grevi... Pedro, che fine hai fatto?!? Carmen Maura che parla di sadomaso mentre lavora all’uncinetto e le pubblicità delle mutande sono da schiantarsi.
1981 – Possession
Andrzej Żuławski ha i problemi con il sesso, e anche di quelli tosti. Degli altri suoi film usciti in Italia ho retto solo la visione de La femme publique, giusto perché Valérie Kaprisky stimolava i miei ormoni di quindicenne come poche altre. Possession invece lo vidi mutilatissimo, in terza serata, su Italia 1, e solo in tempi recenti ne ho recuperato la versione integrale. Colpo di fulmine oggi come allora. La storia malatissima, sospesa tra erotismo, psicanalisi e horror trucido, di Isabelle Adjani (bella che non si capisce) e Sam Neill, coppia in crisi per il presunto tradimento di lei, piacque moltissimo a David Lynch: chiedetevi perché.
1982 – Fitzcarraldo
Il mio primo film di Werner Herzog e, a tutt’oggi, il mio preferito. Mi piace la storia (ispirata a un fatto realmente accaduto), il progetto folle di costruire un teatro lirico nella giungla e della nave che deve attraversare la montagna. Mi piace tutto quello che c’è dietro: le immense difficoltà nella lavorazione, l’incredibile tecnica registica, il rapporto di amore e odio con Klaus Kinski (da leggere La conquista dell'inutile, da vedere i documentari Kinski - Il mio nemico più caro e Burden of dreams), la bellezza mozzafiato degli scenari.
1983 – Zelig
Puro genio, il punto più alto di Woody Allen, l’alchimia perfetta fra tutti gli stili e le tematiche a lui più cari. In un periodo in cui la parola mockumentary era pressoché sconosciuta (bei tempi, eh?), il finto documentario dedicato a Leonard Zelig, i cui tratti somatici mutano secondo il contesto in cui si trova, è di una cura formale eccezionale: merito anche della fotografia di Gordon Willis, dell’attenzione negli effetti speciali, del lavoro certosino di costumista (Loquasto) e scenografo (Bourne). Ma soprattutto è tanto divertente ed emoziona più di quanto ci si aspetti.
È stata dura, lo ammetto, ma dovevo pur scegliere. E allora ho scelto il folgorante, sguaiato, colorato, folle esordio di Pedro Almodóvar, uscito in Italia, come quasi tutti i primi suoi film, solo dopo il successo di Donne sull’orlo di una crisi di nervi (ai tempi col cazzo che c’era torrent...). Quanta vitalità, quanta capacità di trasformare in genio anche le scene e le battute più grevi... Pedro, che fine hai fatto?!? Carmen Maura che parla di sadomaso mentre lavora all’uncinetto e le pubblicità delle mutande sono da schiantarsi.
1981 – Possession
Andrzej Żuławski ha i problemi con il sesso, e anche di quelli tosti. Degli altri suoi film usciti in Italia ho retto solo la visione de La femme publique, giusto perché Valérie Kaprisky stimolava i miei ormoni di quindicenne come poche altre. Possession invece lo vidi mutilatissimo, in terza serata, su Italia 1, e solo in tempi recenti ne ho recuperato la versione integrale. Colpo di fulmine oggi come allora. La storia malatissima, sospesa tra erotismo, psicanalisi e horror trucido, di Isabelle Adjani (bella che non si capisce) e Sam Neill, coppia in crisi per il presunto tradimento di lei, piacque moltissimo a David Lynch: chiedetevi perché.
1982 – Fitzcarraldo
Il mio primo film di Werner Herzog e, a tutt’oggi, il mio preferito. Mi piace la storia (ispirata a un fatto realmente accaduto), il progetto folle di costruire un teatro lirico nella giungla e della nave che deve attraversare la montagna. Mi piace tutto quello che c’è dietro: le immense difficoltà nella lavorazione, l’incredibile tecnica registica, il rapporto di amore e odio con Klaus Kinski (da leggere La conquista dell'inutile, da vedere i documentari Kinski - Il mio nemico più caro e Burden of dreams), la bellezza mozzafiato degli scenari.
1983 – Zelig
Puro genio, il punto più alto di Woody Allen, l’alchimia perfetta fra tutti gli stili e le tematiche a lui più cari. In un periodo in cui la parola mockumentary era pressoché sconosciuta (bei tempi, eh?), il finto documentario dedicato a Leonard Zelig, i cui tratti somatici mutano secondo il contesto in cui si trova, è di una cura formale eccezionale: merito anche della fotografia di Gordon Willis, dell’attenzione negli effetti speciali, del lavoro certosino di costumista (Loquasto) e scenografo (Bourne). Ma soprattutto è tanto divertente ed emoziona più di quanto ci si aspetti.
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martedì 8 ottobre 2013
sesso, bugie e superotto
Ho maturato l’idea che Kim Rossi Stuart sia di un bello che non si capisce, ma mi sa che qualcuno mi ha rubato l’idea. Scherzi a parte, se il protagonista di Anni felici è bello, il film lo è persino di più. E conferma che Daniele Luchetti, quasi sempre, riesce a maneggiare materiale delicatissimo (penso anche a La nostra vita) senza far male né a se stesso né, soprattutto, agli spettatori. Stavolta addirittura è spudoratamente autobiografico, e racconta la sua infanzia, alle prese con un padre (Rossi Stuart) artista di insuccesso, scopaiolo con ogni modella che passa il convento (sì, insomma...) e sostenitore dell'amore libero a senso unico, e con una madre (Micaela Ramazzotti) fragile e infatuatissima del marito, che scoprirà la forza e forse l’amore con una marcantonia di gallerista. Attori meravigliosi, compresi i due bambini (Samuel Garofalo nei panni del regista, Niccolò Calvagna in quelli del fratello), sceneggiatura dei migliori Rulli e Petraglia, nessun compiacimento o buonismo lacrimoso, nessuno stereotipo d'epoca, finale di notevole intensità. Ah, all'urlo «Siete due stronzi!» molti bambini degli anni Settanta presenti in sala hanno accennato un applauso liberatorio. Un peccato non averlo visto con la ms.
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sabato 5 ottobre 2013
i mostri che abbiamo dentro
Grazie. Grazie ai ragazzi che hanno ideato questa cosa dei compleanni delle star (in questo caso Kate Winslet), altrimenti forse non avrei mai saputo dell'esistenza di Little children, l'ennesimo film inedito in Italia, chissà poi perché. Se al'inizio sembra la solita pellicola sul pedofilo in libertà (dopo il sottovalutato The woodman, che ti vuoi inventare?), poi scopri che si tratta di tutta un'altra cosa, nella quale il malato che rientra in città è solo la cartina di tornasole di un posto dove tutti vivono le loro perversioni (o almeno le ritengono tali) senza viverle davvero. Dalle tizie che scarrozzano i pupi al parco sperando di poter guardare “il re del ballo” (l'unico papà apparentemente single della zona) alla squadra di football americano dei poliziotti giustizieri, dal tizio che si masturba con le mutande in testa della protagonista di un sito internet al club delle lettrici che ritiene Madame Bovary una puttana. Kate Winslet, scapigliata e problematica come in Revolutionary road e meglio che in Holy smoke, è perfetta. Completano il quadro una Jennifer Connelly infelice della sua algidità e una serie di uomini (a cominciare, e finire, con Patrick Wilson) da patibolo. Alla fine, come nel malriuscito Passioni e desideri, il migliore è proprio il maniaco (Jackie Earle Haley) in cerca di redenzione. Oltre a quella del club delle lettrici, sequenze spettacolari la scena della piscina (neanche Lo squalo!) e quella del primo appuntamento (con Jane Adams in stile Happiness). Tremendo finale finto buonista, unico difetto l'eccesso di voce narrante. Regia dello sconosciuto Todd Field. Da recuperare.
Gli altri matti che festeggiano la
Winslet sono questi qui:
Director's Cult
Ho Voglia di Cinema
Il Bollalmanacco di Cinema
In Central Perk
Movies Maniac
Pensieri Cannibali
Recensioni Ribelli
Scrivenny 2.0
White Russian
giovedì 3 ottobre 2013
unforeseeable
Ma che colore ha una giornata uggiosa? Nammerda, fatevelo dire. Poi era anche la prima della stagione, ed era domenica. Fortunatamente la poison ci aveva omaggiato qualche settimana fa di un tot di film ovviamente scogniti o parascogniti e, visto che alla domanda della ms «Che film vediamo?» la risposta è stata ovviamente «Uno leggero», ho messo su Synecdoche... no, quella è un’altra storia. Stavolta ci ho preso e, sghignazzando sghignazzando, siamo arrivati felici fino alla conclusione di In the loop. Che è un film di cui ignoravo totalmente l’esistenza, purtroppo. D’altronde è uscito in ogni dove tranne che in Italia. Probabilmente troppo sofisticato, troppo british, troppo lontano dalla nostra realtà: si è mai visto da noi il mobbing spinto? e un politico totalmente incapace che più parla più si incarta e la fa grossa? La storia, tratta da una serie tv inglese di successo (The thick of it), è una satira spietata, corrosiva, dai dialoghi irresistibili, della politica estera (e soprattutto bellica) angloamericana. Il regista, al suo esordio cinematografico dopo un bel po’ di tv, è l’inglese Armando Iannucci (indovinate dov’è nato il padre?). Gli attori, a parte il povero James Gandolfini, non sono granché noti. Tom Hollander, nel ruolo del ministro più incapace del regno, è bravissimo ma Peter Capaldi, scatenato e triviale mastino di Downing Street, è impagabile.
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mercoledì 2 ottobre 2013
in fila per cinque/2
Secondo appuntamento della serie “Un anno un film”, o chiamatelo come volete. Chi si fosse perso la prima, la trova qui. Ricordo che l'idea è di Frank Manila, lo sviluppo di Bradipo, le minchiate invece sono tutte mie. Si comincia.
1974 – C'eravamo tanto amati
Uno dei più bei film italiani di sempre, il punto più alto di Ettore Scola insieme a La terrazza. Trent'anni di storia d'Italia visti attraverso il rapporto di amicizia fra tre uomini e una donna (Gassman, Manfredi, Sandrelli, il povero Satta Flores). Tutti straordinari, ma forse li batte Aldo Fabrizi, qui in un ruolo orribile e odioso, tanto distante dai suoi soliti. E Giovanna Ralli, troppo dimenticata, anche qui bella e magnifica nel ruolo dell'arricchita che scopre tragicamente la propria ignoranza. Gassman che si finge posteggiatore e Satta Flores che va a vedere la conferenza di De Sica sono due perle. Dialoghi impagabili di Age e Scarpelli.
1975 - Qualcuno volò sul nido del cuculo
Rivisto di recente, il film di Miloš Forman che racconta le ignobili storture del sistema psichiatrico nell'America dei primi anni Settanta non ha perso niente della sua forza e della sua modernità. A tutt'oggi uno dei ruoli migliori di Jack Nicholson, ma non dimentichiamo caratteristi con i controfiocchi come i giovani e sconosciuti Danny DeVito, Brad Dourif, Vincent Schiavelli, Christopher Lloyd, per non parlare della tremenda infermiera Louise Fletcher e di "Grande Capo" Will Sampson. Finale che è un pugno nello stomaco. Cinque Oscar meritatissimi.
1976 – Todo modo
Ancora Elio Petri, ancora Gian Maria Volontè. Film recuperato qualche anno fa a tarda notte e, prima dell'avvento del digitale, praticamente invisibile. Liberamente ispirata all'omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, questa satira ferocissima della Dc di allora (ma molto attuale ancora oggi) fu reputata “pericolosa” visto il clima dell'epoca e, dopo il sequestro Moro, sparì dalla circolazione. Merita una riscoperta e, spiegando due o tre cose di storia, ci starebbe bene proiettata nei licei. Volontè è un Aldo Moro molto diverso da quello che interpreterà dieci anni dopo per Ferrara, eppure con pochi gesti ed espressioni lo restituisce paro paro. Tra gli altri interpreti, Michel Piccoli nei panni di Lui (indovina chi?), Mariangela Melato, Marcello Mastroianni e un sorprendente Ciccio Ingrassia.
1977 – Io e Annie
Il primo Woody Allen non si scorda mai. È sempre rimasto tra i miei preferiti, forse il primo (ma col senno di poi) a costituire il trittico dei film che hanno rappresentato la mia educazione sentimentale. C'è stato un periodo in cui conoscevo praticamente a memoria i due brevi monologhi che aprono e chiudono il film, più varie altre battute. Diane Keaton non è mai stata così attraente. La scena della coda al cinema, Shelley Duvall al concerto di Bob Dylan e Marshall McLuhan nella parte di se stesso rappresentano da sempre un sogno e un balsamo per il mio carattere di merda. Quattro Oscar sacrosanti.
1978 – Il cacciatore
Come per le banane e la nutella, da adolescente ne ho fatto indigestione. Dopo anni, di recente l'ho rivisto per intero, ed è sempre un’emozione anche solo guardare la faccia di De Niro. Uno dei pochi film di guerra che amo. Michael Cimino è uno dei più grandi misteri del cinema americano, Christopher Walken indossa forse la sua maschera più inquietante di sempre, e quando faccio un brindisi tra amici mi scappa sempre un po’ la voglia di dedicarlo a Nick (p.s. per i pazzi che si ricordano del mio blog su Libero: è vero, de Il cacciatore ho scritto cose molto simili anche di là).
1974 – C'eravamo tanto amati
Uno dei più bei film italiani di sempre, il punto più alto di Ettore Scola insieme a La terrazza. Trent'anni di storia d'Italia visti attraverso il rapporto di amicizia fra tre uomini e una donna (Gassman, Manfredi, Sandrelli, il povero Satta Flores). Tutti straordinari, ma forse li batte Aldo Fabrizi, qui in un ruolo orribile e odioso, tanto distante dai suoi soliti. E Giovanna Ralli, troppo dimenticata, anche qui bella e magnifica nel ruolo dell'arricchita che scopre tragicamente la propria ignoranza. Gassman che si finge posteggiatore e Satta Flores che va a vedere la conferenza di De Sica sono due perle. Dialoghi impagabili di Age e Scarpelli.
1975 - Qualcuno volò sul nido del cuculo
Rivisto di recente, il film di Miloš Forman che racconta le ignobili storture del sistema psichiatrico nell'America dei primi anni Settanta non ha perso niente della sua forza e della sua modernità. A tutt'oggi uno dei ruoli migliori di Jack Nicholson, ma non dimentichiamo caratteristi con i controfiocchi come i giovani e sconosciuti Danny DeVito, Brad Dourif, Vincent Schiavelli, Christopher Lloyd, per non parlare della tremenda infermiera Louise Fletcher e di "Grande Capo" Will Sampson. Finale che è un pugno nello stomaco. Cinque Oscar meritatissimi.
1976 – Todo modo
Ancora Elio Petri, ancora Gian Maria Volontè. Film recuperato qualche anno fa a tarda notte e, prima dell'avvento del digitale, praticamente invisibile. Liberamente ispirata all'omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, questa satira ferocissima della Dc di allora (ma molto attuale ancora oggi) fu reputata “pericolosa” visto il clima dell'epoca e, dopo il sequestro Moro, sparì dalla circolazione. Merita una riscoperta e, spiegando due o tre cose di storia, ci starebbe bene proiettata nei licei. Volontè è un Aldo Moro molto diverso da quello che interpreterà dieci anni dopo per Ferrara, eppure con pochi gesti ed espressioni lo restituisce paro paro. Tra gli altri interpreti, Michel Piccoli nei panni di Lui (indovina chi?), Mariangela Melato, Marcello Mastroianni e un sorprendente Ciccio Ingrassia.
1977 – Io e Annie
Il primo Woody Allen non si scorda mai. È sempre rimasto tra i miei preferiti, forse il primo (ma col senno di poi) a costituire il trittico dei film che hanno rappresentato la mia educazione sentimentale. C'è stato un periodo in cui conoscevo praticamente a memoria i due brevi monologhi che aprono e chiudono il film, più varie altre battute. Diane Keaton non è mai stata così attraente. La scena della coda al cinema, Shelley Duvall al concerto di Bob Dylan e Marshall McLuhan nella parte di se stesso rappresentano da sempre un sogno e un balsamo per il mio carattere di merda. Quattro Oscar sacrosanti.
1978 – Il cacciatore
Come per le banane e la nutella, da adolescente ne ho fatto indigestione. Dopo anni, di recente l'ho rivisto per intero, ed è sempre un’emozione anche solo guardare la faccia di De Niro. Uno dei pochi film di guerra che amo. Michael Cimino è uno dei più grandi misteri del cinema americano, Christopher Walken indossa forse la sua maschera più inquietante di sempre, e quando faccio un brindisi tra amici mi scappa sempre un po’ la voglia di dedicarlo a Nick (p.s. per i pazzi che si ricordano del mio blog su Libero: è vero, de Il cacciatore ho scritto cose molto simili anche di là).
Si continua mercoledì 9...
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