lunedì 31 marzo 2014

enrico laughed


Aver visto due ore prima in piazza Castello uno sparuto gruppetto di persone che faceva tutto tranne ascoltare il vetusto comizio di una ragazzotta che magari diceva anche cose condivisibili, col suo microfono alimentato dalla batteria del pulmino e un linguaggio che ti aspettavi che da un momento all’altro distribuissero ciclostilati, non ha fatto che aumentare il senso di tristezza e smarrimento che ho provato vedendo Quando c’era Berlinguer. Perché quella ragazza, i fancazzisti che stavano lì a far numero mentre parlavano della serata che li aspettava e si facevano una canna, la polizia in assetto di guerra neanche fosse arrivato in centro il pulmino di Bin Laden, sono figli del degrado culturale di questo paese esattamente come quella fenomenale carrellata di capre e marziani intervistati nella parte iniziale del documentario di Walter Veltroni: da chi parla dell’ex Ursus a chi pensa che Berlinguer sia francese («con quel nome!») e abbia fatto tante guerre, da chi lo scambia per un giudice antimafia a chi ancora, nell’era di internet, con grande faccia da culo si lamenta di non conoscerlo perché «è colpa del sistema scolastico». E mi chiedo com’è che siamo diventati così, da un lato acriticamente nostalgici di qualcosa che neanche ci appartiene, dall’altro rincoglioniti senza memoria. Il film non è esente da difetti: Veltroni si ritaglia qualche commento qua e là che ci saremmo risparmiati, indugia per intero sulla sequenza del comizio che ne precedette la morte, copre con una canzone la scena del funerale… eppure si tratta di una pellicola da vedere. Perché per capire la caratura dell’uomo e del politico Berlinguer, basta ascoltare il suo attualissimo discorso sui pericoli dell’apolitica, gli interventi alle tribune politiche, i motivi del compromesso storico, il coraggio di parlare di democrazia e libertà davanti a Brežnev e Ceaușescu. E poi c’è il suo sorriso. Sincero, mai ruffiano, a volte con quell’ombra di malizia che sembra dire «Mi vorresti fottere e io non te lo permetto», ma sempre il sorriso di un uomo perbene.

venerdì 28 marzo 2014

prima monica e poi cantante


A me la parola biopic evoca medicinali, al limite mi sembra il generico della cardioaspirina. In compenso, le biografie cinematografiche mi stanno discretamente sul culo: divento ipercritico e preferirei di gran lunga un buon documentario. Però, lo sanno anche i sassi, sono curioso. E al Torino Film Festival, ormai una vita e qualche mese fa, ho visto Monica Z, principalmente perché diretto da Per Fly. Che è un regista, non una compagnia aerea: pe' capisse, quello de L'eredità e de La panchina, robe belle ma leggere come piombo come solo gli scandinavi sanno concepire. Peccato che Fly stavolta, per omaggiare la conterranea Monica Zetterlund, cantante jazz piuttosto talentuosa ma dalla vita (che ve lo dico a fare?) travagliatissima, ha realizzato una cosa che sembra una fiction di Raiuno. Viene il dubbio che se Edda Magnason avesse rifiutato il ruolo, il regista svedese avrebbe scelto Beppe Fiorello. Ma la colonna sonora, signor mia, è una meraviglia.

giovedì 27 marzo 2014

'nto culo a mr. wolf/1


Insomma, con buona pace di Harvey Keitel, è giunto il momento di farci i pompini a vicenda. Perché poison e Frank Manila mi hanno insignito del Boomstick Award, e io me la godo. Perciò lasciate che ringrazi la mia zietta, i Pink Floyd, il mare mosso e i produttori del cheddar tradizionale: è anche per merito loro se sono arrivato fin qui.


Cos'è il Boomstick Award? Vabbè, ma allora siete vecchi, anzi vetusti. Mò ve lo spiego copiando le sacre parole del suo ideatore, Hell di Book & Negative: 

Perché un Boomstick? Perché, come ho sempre detto, il blog è il nostro Bastone di Tuono! Perché ci piace essere arroganti e spacconi come Ash e perché, in definitiva, le scuse melense e il buonismo di facciata ci hanno stancato. Il Boomstick è un premio per soli vincenti, per di più orgogliosi di esserlo. Tutto qua. Come si assegna il Boomstick? Non si assegna per meriti. I meriti non c’entrano, in queste storie (cit.). Si assegna per pretesti. O scuse, se preferite. In ciò essendo identico a tutti quei desolanti premi ufficiali che s’illudono di valere qualcosa. Il Boomstick Award possiede, quindi, il valore che voi attribuite a esso. Nulla di più, nulla di meno. Per conferirlo, è assolutamente necessario seguire queste semplici e inviolabili regole:

1 - i premiati sono 7. Non uno di più, non uno di meno. Non sono previste menzioni d’onore
2 – i post con cui viene presentato il premio non devono contenere giustificazioni di sorta da parte del premiante riservate agli esclusi a mo’ di consolazione
3 – i premi vanno motivati. Non occorre una tesi di laurea. È sufficiente addurre un pretesto
4 – è vietato riscrivere le regole. Dovete limitarvi a copiarle, così come io le ho concepite

Detto ciò, rullo di tamburi, ecco i miei riconoscimenti:

bradipo
È uno dei pochi dai lunghi post che leggo sempre senza fatica. È un veterinario, e questo è un atout mica da ridere. Mi fa scoprire un sacco di film e ci troviamo quasi sempre d'accordo.

Filippo
Questo premio ha un solo scopo: titillare l'ego di quest'uomo (che notoriamente fa provincia) nella speranza che riprenda a scrivere da qualche parte che non sia la lista della spesa. Ti voglio bene, stronzo!

Frank Manila
Perché odia le recensioni-lenzuolo esattamente come me, ha il dono della sintesi, mi fa scoprire film scogniti e mi incuriosisce con certi titoli che francamente non vedrei neanche sotto tortura.

James Ford
Perché non lo conosco ma mi sta simpatico. E spesso mi ritrovo nelle cose che scrive e in come le scrive (anche se mi fa incazzare la facilità con cui trova sempre la citazione musicale).

jumbolo
Perché ha una considerazione di me assolutamente spropositata e il mio ego, quando mi cita, fa macroregione. E poi mi fa scoprire un sacco di musica che mi piace.

ms spoah
Perché io amo moltissimo questa donna, in tutti i modi, in tutti i luoghi e anche in tutti i laghi, crepi l'avarizia. E come se non bastasse, scrive da dio ed è più criptica di me.

poison
Perché è una stronza snob quanto e più di me, ma dissimula molto meglio. Ed è un'amica in carne e ossa, che di questi tempi, signora mia, non è poco. Ti voglio bene dee!

E ora che abbiamo emesso fino all'ultima goccia, ecco le regole per i vincitori: potranno a loro volta assegnare il premio ad altri sette blogger, ma non vantarsi di essere gli inventori del banner e del premio... lo ha creato Hell! L'assegnazione del premio deve rispettare quelle quattro regolette scritte sopra. Qualora ciò non avvenisse, il Boomstick Award sarà annullato d'ufficio e in sostituzione verrà assegnato questo qui:

mercoledì 26 marzo 2014

riguardatevi kowalski


Cari amici tamarri, la smetterete di definirmi snob? Come se mi offendessi, poi. Solo che mi chiedevo ieri sera come siamo arrivati da Vanishing point a Fast and furious. Com'è che siamo partiti da una pellicola geniale, pochissimo parlata, che è praticamente un inseguimento stradale di un'ora e tre quarti, con sequenze da antologia (la parte iniziale, il pestaggio del deejay), qualche tetta d'epoca, una colonna sonora spettacolare, insert che sono un vero e proprio documentario sull'America dei primi Seventies, un linguaggio e un montaggio modernissimi (cazzo, sono passati 43 anni!), per arrivare a pseudovideogiochi sciacquapensieri che dimentichi già ai titoli di coda? Il film di Richard C. Sarafian (il remake calmierato con Viggo Mortensen non voglio neanche sapere che esiste) è un capolavoro assoluto e si fa perdonare persino i due gay con la pistola che sembrano usciti da I soliti idioti. Il protagonista, Barry Newman, per chi non se lo ricordasse, è quel finto Dustin Hoffman che in tv avrebbe interpretato tre anni dopo l'avvocato Petrocelli, quello apparentemente sfigato che a fine puntata spaccava il culo a tutti. Nella versione lunga (si trova, si trova) c'è il cameo di una splendida e giovanissima Charlotte Rampling, ma non aspettatevi scene porche.

martedì 25 marzo 2014

catene


E lo sapevo, me lo sentivo, così ho aspettato, ho rimandato. Era lecito aspettarsi qualcosa di diverso da 12 anni schiavo? da un regista nero che fa un film sullo schiavismo, peraltro da una storia assurdamente vera? Sì, specie se quel regista si chiama Steve McQueen. E invece viene voglia di rivedere Radici, forse persino Amistad. Niente di nuovo sotto il sole, emozioni poche (l’accenno di sesso disperato in una delle scene iniziali), sapienza registica a sprazzi (la ripresa del lavoro dopo la tentata impiccagione). Paul Dano, indovinate, fa… lo psicopatico, bravi. Michael Fassbender fa… ma no, non fa il bono, fa lo stronzo schiavista, però sì, sempre bono è. I protagonisti Chiwetel Ejiofor e Lupita Nyong'o sono discretamente bravi, le altre star appaiono pochi minuti a far numero. Le didascalie prima dei titoli di coda fanno immaginare che una parte sicuramente più interessante della vita di Solomon Northup nel film non c’è. Tre Oscar insensati, buoni a sciacquare coscienze, per dirsi «che non accada più!» come se l’odierna raccolta dei pomodori nel Sud Italia sia molto diversa da quella del cotone nella Louisiana dell’Ottocento.

lunedì 24 marzo 2014

mi manca un pezzo


Se non dormi neanche la domenica mattina quando piove, o ti fai di sonnifero o vai allo spettacolo mattutino della multisala. Così, mentre le famiglie più o meno numerose andavano a intasare Mr. Peabody e Sherman e qualche temerario si dava una botta di adrenalina tamarra con Need for speed, io e pochi altri guardavamo The Lego movie. Non sono mai stato un grande fan dei mattoncini: da piccolo detestavo quando la costruzione non veniva esattamente uguale a quella della foto sulla confezione, poi crescendo un po’ decisi di togliermi ’sto palo dal culo e, mischiando giochi di ogni tipo, Lego compresi, iniziai a divertirmi davvero. Insomma, la storia del film è liberamente ispirata alla mia vita: voglio le royalties! Dite che no? Vabbè. Detto ciò, il film di Phil Lord e Chris Miller (che mi avevano già deliziato con Piovono polpette) è piuttosto fico, con dialoghi divertenti, un ritmo sostenuto (a volte pure troppo, ma bisogna pur dare una giustificazione al 3d…) e buone trovate a iosa. Peccato però che la bella idea del finale si schianti nell’inespressa mescolanza animazione-attori in carne e ossa (perché a un certo punto quella specie di citazione di Pinocchio se poi non va da nessuna parte?) e con una fretta eccessiva di happy end che rende il tutto poco credibile (sì, lo so, è un film di animazione più o meno per bambini, perché dovrebbe avere un finale credibile? perché lo decido io!).

sabato 22 marzo 2014

insufficienza respiratoria


È arrivato un sabato sera di febbraio di nove anni fa in braccio a quella ragazza che mi piaceva tanto: «L’abbiamo trovato, forse si è perso. Lo puoi tenere tu? La mamma del mio fidanzato non vuole animali in casa». La mamma del fidanzato, e il fidanzato che, in quanto mio coetaneo, aveva ben 34 anni, disponevano di un gran bel giardino, ma vabbè, a me piacciono i gatti, l’ho già detto. Sembrava pigro e il nome, cinematografico, venne da sé, anche se per nove anni la domanda seguente a «Come si chiama?» è sempre stata «Sid come Sid Vicious?». Se n’è andato ieri pomeriggio, dopo un paio di spasmi e un mese di tribolazioni, durante il quale fingevo di prepararmi al peggio portandolo quasi ogni giorno dal veterinario. Non avevo mai visto un animale morire. Ne avevo visto uno che sarebbe morto di lì a poco, la vecchia gatta del mio amico F., che una notte di capodanno ricevette forse le ultime coccole della sua vita dalla DRFM. Ora che ci penso non avevo mai visto nessuno morire. Ci sono sempre stati un ritardo, una lontananza, una porta chiusa. Non so se questa cosa abbia un significato, la morte di sicuro non ce l’ha mai.

venerdì 21 marzo 2014

pamphlet col vampiro


Arrivo. Piano ma arrivo. Però mi ricordo tutto. Ricordo che erano le due e mezza del pomeriggio ed era il Torino Film Festival. Con Jim Jarmusch ho un rapporto travagliato, penso sempre (e forse ho ragione) di non aver visto alcuni dei suoi film migliori. Tuttavia. Only lovers left alive (che è un titolo fico, diciamolo) è un film... lungo. Lungo, lunghissimo, eterno come la vita dei due vampiri protagonisti. E dura poco più di due ore. Però. Però è difficile non restare affascinati dalla mise en scène, farsi cullare (occhio però alla pennica) dai mille discorsi, ma anche dalla magnifica esangue fisicità dei protagonisti. Adam (Tom Loki Hiddleston) e Eve (Tilda Swinton), che ci sono sempre stati (nomen omen) e che da sempre si amano, hanno smesso da mò di azzannare i passanti, bevono sangue che arriva dagli ospedali, amano la musica e la letteratura e guardano con disprezzo lo zombie che l'essere umano è diventato: praticamente, se non fosse che sono mortale e non bevo sangue (a meno che non sia sotto forma di tortino come ieri sera), sono uno di loro. A rovinare (o a movimentare) la routine, ci sono la sorella di Eva, Ava (no comment sui nomi), che porta il friccicorio di Mia Wasikowska, e la disperata ricerca a Tangeri del loro principale spacciatore di sangue, un magnifico (ça va sans dire) John Hurt. Finale al confine fra il triste e il delizioso (sì, poison, sto pensando a te). Si ride, ci si emoziona, ci si annoia e poi di nuovo si ride, ci si emoziona, ci si annoia per 123 minuti. Io però, che dirvi, più ci penso e più mi piace. Ah, naturalmente in Italia per il momento (?) non esce.

giovedì 20 marzo 2014

don't shoot me i'm only the piano player


Quando si dice la fantasia! Grand piano, che esce oggi e che io vidi l’ultimo giorno del Torino Film Festival quattro mesi fa, in Italia è diventato Il ricatto. Ce ne faremo una ragione? E facciamocela. Anche perché il film di Eugenio Mira, compositore e regista spagnolo, non è che sia proprio di quelli memorabili. Peccato, perché la storia, se non proprio originale, poteva almeno essere ansiogena, inquietante, appassionante. E invece niente. Quindi dimenticate Hitchcock (non basta uccidere qualcuno mentre va in scena un concerto come ne L’uomo che sapeva troppo) e pensate alla credibilità di Elijah Wood, giovane pianista complessato che torna a suonare dopo anni. Molto meglio John Cusack, killer psicopatico ma forse no, che ormai ci ha preso gusto a fare il cattivo. Il colpo di scena che svela il perché è il percome di per sé è la cosa che funziona di più, ma il finale svacca verso un’improbabile soluzione da vecchio giallo-rosa.

mercoledì 19 marzo 2014

facce (ride)


Una serata iniziata tardi, una stanchezza atavica e pensieri come se piovesse (del tipo della penultima scena...). Insomma decido che tonight's the night (gonna be alright) e guardo Il volto di un'altra, storia surreale (?) di plastiche, chirurghi e starlette tv. Sono stato un fan della prima ora di Pappi Corsicato, anche quando l'Almodóvar de noantri zoppicava in film meno interessanti. Ma qui, fin dalle prime scene, mi sono chiesto: perché non fare recitare degli attori capaci? e perché anche i pochi attori veri recitano male? Il film ha le “solite” punte di genialità cui il regista napoletano ci ha abituato, è girato a volte bene, a volte con i controcazzi, e gioca continuamente con un finale che (vivaddio) non è propriamente quello immaginato. E quando viene spiegato il perché degli inserti in bianco e nero mi sono ribaltato. Ma la Chiatti e Preziosi non si possono sentire, e persino Iaia Forte e Lucilla Agosti faticano a trovare la quadra. Peccato.

martedì 18 marzo 2014

kill josiah


Misteri della fede. Come toti, non quello della stampella. Come stare in ufficio con una giornata come questa. Come… vabbè, potrei andare avanti a oltranza. Il fatto è che proprio non capisco perché un film come Sweetwater, presentato al Sundance e visto al Torino Film Festival – ovviamente senza ancora una uscita italiana in previsione – sia stato piuttosto massacrato dalla critica americana. A me, e se non ricordo male anche a quel simpatico donnino della poison, aveva divertito non poco questo western vagamente tarantiniano che tanto deve alla presenza di un istrionico e adorabile Ed Harris nel ruolo di un improbabile sceriffo fuori di testa. Harris che era anche protagonista del primo film dei gemelli Logan e Noah Miller, Touching home, che forse vale la pena di recuperare. Ah, qui la protagonista femminile, vedova che medita vendetta contro il bastardissimo fanatico religioso Jason Isaacs, è January Mad men Jones.

lunedì 17 marzo 2014

e il cuore di simboli pieno


Quando si accendono le luci, ci si asciuga qualche lacrima: le altre verranno, più discrete e più esagerate, nel silenzio di casa. Non c’è quasi voglia di parlare, ché poco, o moltissimo, ci sarebbe da dire. C'è da chiedersi che vita abbia chi nella fila dietro lo ha definito "carino": perché può piacere o non piacere in mille gradazioni diverse, ma carino, no, proprio no. Her ha raccontato a ciascuno un pezzo di sé, a noi due anche un po’ di noi. Il film più bello di Spike Jonze te lo porti dentro come una seduta psicanalitica a rilascio lento, qualcosa che strada facendo si trasforma in una specie di coccola, o almeno di massaggio alle tempie. Sì, poi c’è la parte tecnica, l’Oscar strameritato per la sceneggiatura, c’è il timbro un po’ sporco e sexy di Scarlett Johansson e c’è la voce strascicata e quasi incomprensibile di Joaquin Phoenix che scrive lettere conto terzi con una finta grafia manuale. C’è un futuro che sembra tanto presente, a parte i pantaloni ascellari. C’è il videogioco per la mamma perfetta. Ci sono Amy Adams tornata un po’ peppia per l’occasione e Olivia bambolinaebarracuda Wilde. Ma sono quasi dettagli, il film è ancora tutto troppo qui e troppo altro per aver voglia di sezionarlo.

giovedì 13 marzo 2014

non ditelo alla borromeo


Ogni François Ozon che passa, da queste parti ci si ferma incuriositi. Poi di Giovane e bella avevo letto tutto e il suo contrario, quindi ero in grande attesa. Il risultato è... un soufflé. Parte benissimo, con quel taglio voyeuristico che tanto ci piace del regista francese, quel suo scrutare il primo amore della protagonista (l'effettivamente giovane e bella Marine Vacth), la sua famiglia boccalona radical-chic, il fratello morbosetto, il passaggio netto e senza spiegazioni della ragazza alla prostituzione. Fila tutto a meraviglia finché la verità non viene a galla: da qui in avanti il film improvvisamente s'avvita e s'ammoscia, per poi risollevarsi in un finale struggente e inaspettato, complice la sempiterna Charlotte Rampling, che avrebbe meritato di concludere un copione migliore.

martedì 11 marzo 2014

get smart (drug)


Siamo così male abituati che ci viene facile gridare al miracolo: qualcuno ci ha creduto anche nel ’94, quando si presentò in tv un imbonitore con la calza davanti, i libri finti dietro, i capelli finti sopra. Ma non divaghiamo: avevo alte aspettative su Smetto quando voglio e, intendiamoci, mi è piaciuto, ma esageruma nen. Per essere un’opera prima, quella di Sydney Sibilia funziona molto bene, e parte da un’idea intelligente e azzeccata: un gruppo di ricercatori universitari, costretti a fare lavori più che ingrati, decide di mettere in campo le proprie competenze scientifiche per fabbricare e spacciare una nuova droga. Fotografato con colori che definire saturi è un eufemismo, questa sorta di versione lisergica de La banda degli onesti racconta col giusto sarcasmo molto poco politically correct lo squallore di certi ambienti universitari nonché la “nuova” presenza degli stranieri nel nostro Paese, barcamenandosi con agilità sul sottile confine tra caratterizzazione e macchietta, provocazione e razzismo. E alcune sequenze fanno davvero piegare in due dalle risate, come il colloquio di lavoro di Pietro Sermonti dallo sfasciacarrozze o tutta la geniale scena della rapina. Il gruppo di attori sembra sguazzare felice in questa operazione, da Leo a Fresi, da Calabresi a De Rienzo, anche se i miei preferiti sono Valerio Aprea e Lorenzo Lavia che litigano in latino e a cui spesso sono affidate le battute migliori. Fa eccezione Valeria Solarino, che qui proprio non mi ha convinto, e questo è molto triste.

lunedì 10 marzo 2014

e sally field?


Come ritrovarsi di botto tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Come avere poco più di vent’anni e infilarsi in un pomeriggio solitario dentro un cinema semideserto a vedere un film americano parlatissimo e pieno di attori, quelle pellicole un po’ sfigate partite per far sfracelli agli Oscar e tornate a casa con le pive nel sacco. E c’era sempre Sally Field. O Meryl Streep. Insieme mai, credo. E Sam Shepard recitava o era autore del copione, o tutt’e due. Detto ciò, I segreti di Osage County (che poi sarebbe August: Osage County) sembra arrivare dritto da quel periodo là. E di quel periodo lì ha tutti i vezzi, compresi il taglio teatrale (sì, ok, è tratto da una commedia, però…) e la voglia di strafare (siamo sicuri che – spoiler – l’incesto inconsapevole non sia una trovata un po’ esagerata?). John Wells incide poco sulla regia ma lascia fare: perché i tanti dialoghi spettacolari di Tracy Letts (che è anche l’autore di Bug e Killer Joe…) hanno solo bisogno di ottimi attori. Meryl Streep e Julia Roberts qui fanno faville, tanto da far scomparire gli altri.

sabato 8 marzo 2014

cruising for bruising


Partiamo dalle basi. A me vedere un bel culo maschile o un bel pisello non dà per nulla fastidio, anzi: la mia parte gaia apprezza e porta a casa (voi non avete una parte gaia? bugggìa!). Inoltre vedere scene di sesso credibili al cinema, se hanno un senso con il resto, mi sembra più che naturale. Infine, l’ambientazione mi ha ricordato la spiaggia nudista di Rodi dove, mentre una insopportabile alcolista tentava di farmisi, dietro le dune qualcuno probabilmente si divertiva sul serio. Preamboli per dire che non mi aspettavo che Lo sconosciuto del lago mi sconvolgesse per chissà che immagini: come già per La vita di Adèle, mi è sembrato tutto pacificamente “necessario” a raccontare la storia con buona pace dei segaioli di ogni età. Dopodiché, il film di Alain Guiraudie, premiato nella sezione Un certain regard di Cannes, osannato dai Cahiers e amato da buona parte della critica, mi ha lasciato parecchio così (ecco, bravi, la faccia è proprio quella che avete immaginato). Intanto perché dove andava a parare io l’ho immaginato dopo venti minuti dall’inizio (alla scena del delitto, pe’ capisse). E poi perché il detective stile Colombo sfigato non si può vedere. Inoltre, il finale sfastidia non perché tagliato col coltello (ops…) ma perché sembra un po’ tirato via. Restano delle buone prove d’attore (soprattutto Patrick Dassumçao nel ruolo del triste Henri) e un paio di buone idee come la routine che scandisce gli avvenimenti del film.

venerdì 7 marzo 2014

ma chi minchia è audrina?


Si capisce che ho visto The bling ring? Perché io con certi pseudodivi ci ho i problemi. E comunque, vista l'ambientazione e il fatto che – gesussanto – trattasi di storia vera, ci sta anche che ci sia miss chicazzoè Audrina. Comunque, mentre guardavo il film di Sofia Coppola (regista che io amo, come sapete, e che mi ha fatto incazzare finora solo con Somewhere), non potevo non pensare a Spring breakers e alla sua allucinata follia, follia che qui manca totalmente. In compenso c'è la lucida mancanza di responsabilità dei giovani protagonisti, dei loro insulsi genitori (ussignur, The secret esiste sul serio!), del bestiario hollywoodiano che ha gusto estetico come io ho un cane e che ha case da fantastiliardi di dollari e lascia le chiavi sotto lo zerbino. Si esce dalla visione sfastidiati come quando la sabbia nelle mutande ti tortura il buco del culo. La Coppola riesce a metà nel suo intento, il film è buono ma lo credevo migliore. E chi si aspetta la versione troia di Hermione Granger rimarrà deluso: Emma Watson è perfetta nel personaggio di ragazzetta smorfiosa e avulsa dalla vita reale, ma per stavolta non fa sesso neanche per niente. Ah, la colonna sonora è da colonia penale.

giovedì 6 marzo 2014

lo chiamano gay e tu pensi ricchione


Lo so che oggi escono il seguito di 300 e l’ennesimo remake animato di Tarzan (m’è bastato vedere la sagoma cartonata per decidere di evitarlo), ma date retta a me: cercate il posto più vicino in cui vedere Felice chi è diverso. Ispirato a un verso di Sandro Penna, il documentario di Gianni Amelio (che ho visto a Berlino un mesetto fa) è la cosa più bella realizzata dal regista calabrese dai tempi di Così ridevano. Per raccontare la difficoltà in Italia di vivere la propria sessualità da parte di quelli che fino a quarant’anni fa erano definiti “capovolti” e che oggi gente con giovanardi nel cervello definisce culattoni, Amelio compone un riuscito mosaico di interviste a venti omosessuali, tutti anziani tranne l’ultimo giovanissimo: in buona parte sono persone comuni di varie estrazioni sociali, ma c'è anche qualche personaggio noto come Ninetto Davoli e Paolo Poli. A questi si alternano omaggi a Bindi e Pasolini, nonché un agghiacciante, fascistissimo corredo di vignette e fumetti, rotocalchi e cinegiornali di varie epoche, per ricordarci di non dimenticare. Bello, a tratti commovente, spesso “incazzante”, forse più adatto a un’idea di tv che non esiste che al grande schermo.

mercoledì 5 marzo 2014

e se nasce una bambina poi la chiameremo rrroma


Tutto questo parlare de La grande bellezza (a volte sacrosanto, spesso pretestuoso o noioso come una morte lenta) mi ha ricordato che non ho mai parlato di un film che della pellicola di Sorrentino rappresenta la faccia “plebea”: Sacro Gra. Vincitrice a sorpresa del Leone d’Oro all’ultimo Festival di Venezia ma sfigata al botteghino, la strana creatura partorita da Gianfranco Rosi merita il recupero di chi l’ha ingiustamente ignorata. Documentario-non documentario (non hanno ancora inventato una parola adatta, credo) è costituito da una serie di episodi a incastro che raccontano la vita di un’umanità molto varia che vive o gravita intorno al Grande Raccordo Anulare di Roma: un barelliere solitario che passa il tempo libero in chat, un botanico che tenta di debellare un parassita delle palme, un principe decaduto che affitta la sua villa come location per film e ricevimenti, un intellettuale che vive con la figlia laureanda in un buco di monolocale, un pescatore di anguille, un paio di prostitute, un gruppo di pellegrini… Poteva essere un mattone di rara bruttezza e pretenziosità, e invece Rosi evita le pesantezze e i cliché di un’operazione del genere, e il risultato sorprende per accuratezza e intelligenza. Avercene.

martedì 4 marzo 2014

io posso dire la mia sugli oscar


Sì, finita la buriana (bonasera bella buriana mia, come cantava Pino Daniele, credo. smetto di fare il cretino? ok), dicevo: finita la buriana dei commentatori, buon ultimo arrivo io che ieri pensavo «Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?». Vabbè, non riesco proprio a non fare il cretino... Detto ciò, mi dicono che l'altra notte hanno consegnato gli Oscar. E io avevo messo una sveglia e un sito di streaming in attesa. Poi mi sono svegliato alle sette e mi sono ricordato da quanto tempo non faccio quella nottata lì: da quando ho iniziato a lavorare, porcazzozza. Detto ciò, non ho ancora visto 12 anni schiavo, che un po' mi incuriosisce, un po' m'ammoscia, nonostante Steve McQueen (quello vivo) e un cast interessante. Gravity a me piacque, e nemmeno per un momento vedendolo ho pensato a Kubrick. Film bello, affascinante da un punto di vista tecnico ma anche per la costruzione della storia. La Bullock anche stavolta ha dimostrato di non essere soltanto il naso che fa più sesso al mondo insieme a quello della Solarino, Clooney gigioneggia, Cuarón ha fatto film migliori (e questo a me piacque, eh) e l'Oscar mi pare troppo. McConaughey e Jared Leto sono premi sacrosanti. DiCaprio può attendere, Scorsese avrebbe ragione d'incazzarsi. Her lo vedrò: scalpito, lo ammetto. Di Sorrentino già dissi: verdetto più che meritato. Adesso più di prima dovrà sorbirsi un susseguirsi continuo di gloria e merda, ma lo sa già: è esattamente il mondo che ha descritto.