giovedì 19 novembre 2015

dico trentatré


No, tranquilli, sto bene. Oddio, un po' di infiammazione alla bocca dello stomaco, ma tanto adesso partono gli otto giorni di disintossicazione: da domani vado a seguire la trentatreesima edizione del Torino Film Festival. Avrò dietro un portatile ma non so quanto e se posterò. Di sicuro mi troverete più di frequente su Twitter e, per chi sa, Facebook. A presto!

lunedì 2 novembre 2015

credo di aver visto un film del tff


Mi mangio il cappello (uno a caso, magari di quelli meno impolverati) se Walter non farà parte della sezione Festa mobile del prossimo Torino Film Festival (signora Martini, la prego, si metta una mano sulla coscienza e lo aggiunga in corsa, grazie). E insomma ero lì, in una serata un po' così, e ho cercato qualcosa di inedito sul web. E ho trovato questa strana commedia indipendente che, come molte commedie indipendenti americane, parte che sembra una cosa e poi tac! diventa qualcos'altro. Se all'inizio l'opera prima di Anna Mastro (all'attivo un po' di corti e un po' di tv) sembra una specie di commedia assurda sui danni della religione, a metà sboccia e si trasforma in un quasi dramma – seppure divertente – a lieto fine. Walter, un po' autistico un po' oppresso dalla madre e un po' depresso, da quando è morto il padre è convinto di essere stato prescelto da dio per decidere chi va in paradiso e chi all'inferno. Ovviamente non è così, e dietro c'è un trauma infantile. William H. Macy è lo psicologo che (non) vorresti avere, Neve Campbell invecchia in bellezza, Virginia Madsen no ma è brava, gli altri attori, tutti piuttosto televisivi compreso l'impeccabile protagonista Andrew J. West e la classica bonazza americana Leven Rambin, fanno la loro porca figura. E alla fine del film, se mai l'hai avuta, ti passa tutta la voglia di andare in una multisala.

lunedì 5 ottobre 2015

a volte ritornano (e non ne hanno un cazzo voglia)


Sono stato in vacanza, finalmente. Istria. Che dici: potrebbe essere italiana. Per fortuna o purtroppo non lo è. Che bella scoperta Rovigno, piccola città dolcissimo posto, turistica ma non troppo, gioiello che se avesse una multisala furba (ossimoro?) sarebbe il paradiso. E che belle le spiagge di Monsena, naturismo tranquillo e facile da raggiungere, autunno di sole e di mare, anche nei due giorni di pioggia, e una birra al tramonto fra tende bianche e una poltrona di vimini. Pola no, già troppo sputtanata. Tanti tedeschi, pochissimi italiani, qualche anglofono. Gli abitanti un po' liguri: chiusin chiusini, ma dagli tempo e si aprono come fiori in primavera. Sulla via del ritorno, poi, tutto un susseguirsi di incontri vicini e lontani, blogghici e non, da quelli più o meno concordati (il signor Fascino, assiduo commentatore della poison, esiste sul serio, e poi la signora Middlemarch che è sempre uno splendore, per non parlare di Simonetta che finalmente ha un volto), e poi gli elementi sorpresa: la mia amica P., che non riesco mai a pensarla in Triveneto anche se sta solo qualche decina di chilometri più su di Venezia, ed E., che mi dice «pranziamo insieme» ed è bello sapere che c'è, dopo anni e nonostante la mia antica stupidità, ed è altro da allora ma è sempre uno star bene e una felicità parlarci. Insomma sono tornato. E sto già pensando ai prossimi weekend in attesa del Tff.

venerdì 18 settembre 2015

chiedi chi era wes craven


Insomma ci pensavo guardando L'ultima casa a sinistra, e poi pensando a Nightmare e Scream. Ci saranno adolescenti che non si cacheranno in mano vedendo un film di Wes Craven, l'uomo che ha reinventato, almeno per tre decadi, il teen movie de paura. Ci mancherà, quell'uomo lì. Uno che ha cercato, e un po' c'è riuscito, a fare film sempre diversi. Una specie di highlander che, con tutte quelle reincarnazioni, sembrava non dovesse morire mai. Il film di cui parlo oggi è del 1972. Craven debutta grazie a Sean S. Cunningham con questo film datato e malato (non so a quale aggettivo dare la precedenza) che ha, nientemeno, che un'ispirazione bergmaniana, La fontana della vergine. Beh, i punti di contatto ci sono, ma... La protagonista, che muore presto, è una ragazza senza reggiseno. Cerca maria, cerca sesso, cerca vita. E un po' se la fa sotto un po' no. Purtroppo lei e la sua amica (muore anche lei, ma non è un grande spoiler) incontrano degli psicopatici scappati di galera. La vera svolta del film, checché se ne dica, è nell'ultima mezz'ora, quella della vendetta. Un film datato, sì. Imperfetto, d'accordo. Con una coppia di poliziotti che sembra uscita da una puntata di Hazzard, ma alla fine sono gli unici personaggi sopra le righe. La meraviglia sta nei contrasti, nelle musiche sempre suadenti, quell'easy rock vagamente country spalmato su scene agghiaccianti eppure quasi prive di dettagli macabri. E sta nel montaggio incrociato fra le torture nel bosco e la vita da mulino bianco dei genitori di lei. Una piccola perla.


Ed ecco gli altri partecipanti alla giornata dedicata a Wes Craven. Buona lettura!

Il Bollalmanacco - Il serpente e l'arcobaleno 
Non c'è paragone - La casa nera
Mari's Red Room - L'ultima casa a sinistra
Scrivenny - Scream
Combinazione casuale - Nightmare - Dal profondo della notte
WhiteRussian - Red Eye
Cinquecento Film Insieme - Scream 3 e 4
Pensieri Cannibali - Nightmare - Nuovo incubo
In Central Perk - Nightmare - Dal profondo della notte
Il Zinefilo - Dovevi essere morta
Director's Cult - La casa nera


lunedì 14 settembre 2015

rocking rolling


Non so voi ma, da italiano, leggere la frase Dove eravamo rimasti mi fa piuttosto effetto e mi fa solo pensare a una orrenda pagina di malagiustizia scoppiata nel 1983 e tragicamente conclusa cinque anni dopo. Che aveva di brutto Ricki and the Flash, considerato che la metà dei film che escono dalle nostre parti ha un titolo inglese, a volte anche inventato a Roma? Vabbè, ve lo ricordate Jonathan Demme? Qualcosa di travolgente, Il silenzio degli innocenti, Philadelphia e, restando in tema musicale, Stop making sense? Ecco, lasciate perdere. Brava Meryl Streep, perfetta anche stavolta, pure come cantante, con quel timbro sporco che ti lascia qualche unghiata qua e là. Brava la figlia, bravo e bello Rick Springfield (66 anni?!?), bravi tutti gli altri, bentornato a Kevin Kline, ma... Vi ricordate Diablo Cody, autrice di quella meraviglia di Juno? Stavolta ha attinto dalla sua esperienza di figlia di rocker truzza e fallita, ma il gioco non gli è riuscito poi tanto. Una commedia scontata e un po' vecchiotta, con un cast multietnico e multisessuale che sembra un po' una barzelletta, quattro o cinque battute divertenti (Nirvana, soprattutto), e qualche lacrimone inevitabile sul finale, quando quasi tutti si sfilano il bastone dal culo e iniziano a ballare sulle note del Boss. Ci si poteva aspettare di più? Molto, direi.

giovedì 10 settembre 2015

bell(in)a zio


Buongiorno mister Guy Ritchie, posso farle due domande sul suo ultimo film? Lo sa che i cartelli arancioni con la scritta Taxi sono stati introdotti in Italia solo nel 1992? Sa, quel periodaccio fatto di mafia, esplosioni, tangenti, monetine e b.? Come b. che vuol dire? Vuol dire battone, ma anche battuage: sa in quel periodo quanti si sono prostituiti? Quanti hanno salvato il culo dandolo gratis? Quanti lo hanno oliato per bene in attesa dell'unto del signore? Vabbè, non ci faccia caso, le mie sono ostie di un vecchio (cit.). Comunque nel suo film c'è un anacronismo, e questo è un fatto. E poi… mi toglie una curiosità? Ma quella canzone di Peppino Gagliardi (dico Peppino Gagliardi! che a malapena se lo ricordano i parenti…) come l'ha trovata? Peraltro, fa da colonna sonora a una delle tre sequenze per le quali vale assolutamente la pena vedere Operation: U.N.C.L.E., quella in cui c'è coso che mangia il panino mentre quell'altro rischia la morte in motoscafo. Come chi è coso? L'ha scritturato lei! E anche quell'altro. E pure quella. E, le dirò, io non ho schifato nessuno dei tre come ha fatto qualcun altro (no, vabbè, non mi dica che legge il blog di poison!). Però le dico un'ultima cosa, ecco, col cuore in mano: lei che ha fatto Sherlock Holmes, no dico Sherlock Holmes!, una delle maggiori rivalutazioni del sottoscritto partendo da aspettative zero. Beh, lei che è sempre così cazzaro… stavolta non lo è stato abbastanza. Carino ma… ripassi Kingsman, ci vediamo a settembre. O quando sarà.

martedì 8 settembre 2015

notte horror: dead snow


Dici: perché diffidi della montagna? Ma non è vero. Non nevica, tu mi porti in macchina per curve e strettoie, ci facciamo un'escursione di un bel po' di chilometri (giuro) ma non più di 300 metri di dislivello, tu riguidi verso casa. Fico no? Tutto ciò per dire che… quale film per concludere meglio la nostra Notte Horror di Dead snow? Era da un po' che 'sto film stava lì in attesa. E devo ammettere che me l'aspettavo più grand guignol, più kitsch, insomma più truzzo. E invece 'sta specie di La casa immerso nella neve e grondante di zombie nazisti ha il suo perché. Nessun miracolo, ma il film del norvegese Tommy Wirkola diverte, con il suo oscillare contento fra parodia, autoparodia e omaggi vari, con una confezione tutto sommato curata nonostante un budget limitato. Ah, adesso mi tocca il sequel, ovviamente. Nonché la parodia di Kill Bill. Perché Wirkola poi si sia buttato su Hansel e Gretel, vabbè… pecunia non olet, al massimo dà risultati che fanno cacare.


Cari zombetti miei, con questa recensione e quella di Obsidian Mirror, dalle 23 in poi con un altro classicone qual è Trilogia del terrore, si chiude la seconda edizione di Notte Horror: ci vediamo al prossimo anno, spero. E se vi siete persi qualche puntata, ecco il programma completo:

venerdì 28 agosto 2015

e adesso sta con lei


Ma uno fa un film solo perché giri come una trottola da un festival all'altro? Mah, chissà. Intanto, a guardare su Imdb, c'è poco da stare allegri: I'm Michael, oggi, un'uscita normale, non dico in Italia, ma almeno in un Paese normale, non ce l'ha ancora. Forse perché è di quelli scomodi. Ma scomodi forti, fatti per scontentare, pardon, fare incazzare tutti. Ancor di più perché si tratta di una storia vera. Michael Glatze era un attivista omosessuale con i controcazzi, stava con un bel ragazzo, avevano una liaison stile Love story (nel senso dei fotoromanzi rosa, non della leucemia). Poi, un giorno, come Paolo a Damasco, venne folgorato da un coglionetto che gli disse più o meno «io sono Luca e Luca era gay». Da allora violentò la sua natura, divenne etero e più in là predicatore mormone. La vostra reazione è «Masticazziiii!!!»? Ecco, pure la mia. James Franco (il film l'ho visto alla scorsa Berlinale, che praticamente era una "retrospettiva in avanti" dei film di Franco) è perfetto nel ruolo forse combattuto forse no forse boh del protagonista. Justin Kelly, regista esordiente, ha un tocco pulito, preciso: non gliene frega niente di strafare, ma riesce a dare qualche cazzotto in pancia quando meno te l'aspetti. Sarebbe uno di quei rari casi, forse, da «sì, il dibattito sì». Nel dubbio, però, non invitatemi.


Questa recensione fa parte di quelle dedicate al Rainbow day, ovvero a tutti i colori dell'amore. Un'idea di Arwen Lynch per festeggiare il compleanno del suo blog. Quindi innanzitutto i miei migliori auguri! E poi ricordatevi che ci sono da leggere anche questi post qui:

Delicatamente Perfido
Director's Cult
Il Bollalmanacco di Cinema
In Central Perk
La Fabbrica dei Sogni
Non C'è Paragone
Obsidian Mirror
Pensieri Cannibali
Solaris
White Russian

lunedì 24 agosto 2015

te lo ricordi demetrio quello sfigo


Vabbè, dai, c'ho un'età: se leggo Edoardo De Angelis penso a La casa di Hilde e, soprattutto, a Lella quella ricca, la moje de Proietti er cravattaro. Ma questo Edoardo De Angelis è solo un omonimo e fa il regista. E lo fa anche bene. Ho visto Perez. con un bel po' di ritardo, ma mi è piaciuto con la sua aria livida e sporchetta, e un Luca Zingaretti come sempre a portare a casa un buon risultato. Insieme allo splendido Si alza il vento (ma chi è quel cretino che diceva fosse un film militarista? ho pianto come un vitello, ed è come una lezione di storia dentro un quadro di Monet), mi ha disintossicato dall'ultimo Mission: Impossible che, ancora dieci minuti, e m'assopivo: noioso, faticoso, fuori tempo massimo. Cosa faccio di bello in questo periodo? Dopo aver finito di lavorare come un ciuco, sto lavorando come un ciuchino e aspetto con ansia la fine di settembre che mi porterà in vacanza. Per il resto, poco. Forse gatti in arrivo, forse altro, sostanzialmente forse. Scrivo poco, commento su fb, pratico shiatsu pagato in natura (canne e generi alimentari, che avete capito?), converto zia 86enne alla lettura di Internazionale, ed è la più grande delle soddisfazioni. Ah, e torno nella mia isola di blogspot. Com'è che diceva quel bel culo anni Settanta (e forse non solo quello)?


giovedì 16 luglio 2015

salvate il soldato hook


«Ricchi coglioni che dicono a stupidi coglioni di uccidere poveri coglioni.
Questo è l'esercito»
('71, Yann Demange)

Vabbè, ditemi «Te l'avevo detto» e non ci pensiamo più, ma quanto è fico 'sto '71? Lo avevo evitato all'ultimo Torino Film Festival perché temevo l'ennesimo film, un po' noioso, sul conflitto irlandese. E invece non ci si annoia mai. Claustrofobico, con sequenze al cardiopalma, girato abbastanza da dio da un regista francese al suo primo lungometraggio dopo un bel po' di tv, ha un ritmo notevole, una signora sceneggiatura, e dimostra una volta di più come la stessa storia (Storia) si possa raccontare con modulazioni e angolazioni diverse. Insomma, per usare un francesismo (già che ci siamo), a dispetto di qualche stereotipo è un film che spacca i culi. E se si pensa che il tutto accadeva davvero non poi troppi decenni fa, la cosa mette giusto quel tocco di angoscia in più. Da vedere senza se e senza ma. Gira al cinema in originale con i sottotitoli, non ho poi capito bene perché. Di certo, la lingua inglese con cadenza d'Irlanda, senza, è incomprensibile giusto un gradino sotto quella che si parla in Scozia.


martedì 14 luglio 2015

notte horror: il conte dracula


- I am Dracula. Enter freely and of your own will.
(Count Dracula, Jesús Franco)

È con grandissimo piacere che apro le danze di questa seconda edizione di Notte Horror, e non con un film qualunque, ma con Il conte Dracula (1970) di Jesús Franco, con il mitico e (pensavamo) inossidabile Christopher Lee. Come tutti i grandi personaggi letterari, Dracula, come Frankenstein o Pinocchio o il conte di Montecristo, è stato trasfigurato, banalizzato, accorciato, minoreitanizzato (chi coglie la citazione senza ricorrere a Google vince una cena col sottoscritto) da mille film diversi. Ebbene, il regista spagnolo che più ha dato al cinema di genere con boiate enormi, film decenti e piccole perle lungo una carriera sterminata, è stato, almeno fino al capolavoro di Francis Ford Coppola, quello che, con questo film, pur semplificando e accorciando, è rimasto più fedele al romanzo di Bram Stoker. Lee, ovviamente, interpreta per l'ennesima volta il vampiro, anche se, obiettivamente, il migliore tra gli attori è senz'altro Klaus Kinski nei panni del povero, pazzo Renfield. Il compianto Herbert Lom, già straordinario Dreyfus nella saga della Pantera rosa ma non ancora assurto a mito, qui è Van Helsing. Il film, oltre ad essere ottimo per chi si voglia cimentare con la versione originale (l'inglese perfetto, quasi scolastico, è meglio di un corso della Fabbri Editore), è un curioso esempio di bmovie con un cast non proprio povero (ma le protagoniste sono due attrici culto di Franco, Maria Rohm e Soledad Miranda). Ondeggia tra un Hammer privo di ironia e l'horror di qualità, alternando effettacci scalcagnati, buchi di sceneggiatura e sequenze de paura mica male come quella iniziale del viaggio in carrozza e quella degli animali impagliati. Ne esiste anche una specie di making of molto sui generis, Cuadecuc del mitico produttore Pere Portabella, che si può ammirare qui su youtube: solo per feticisti del cinema, tipo tu che mi stai leggendo, insomma.


E adesso non dimenticate l'appuntamento dei prossimi martedì, nonché, soprattutto, quello delle 23 di stasera con Director's Cult e un altro, mitico titolo che ha per protagonista Sir Christopher Lee: The wicker man.

il giorno degli zombetti


Ci siamo: poche ore e si parte per il secondo anno consecutivo con la Notte Horror on the Blog, l'omaggio che noi zombetti più o meno cresciuti facciamo alla mitica rassegna che ci teneva svegli davanti alla tv ormai qualche secolo fa. Tutti i martedì, da stasera all'8 settembre, doppia recensione: una alle 21, una alle 23. Comincio io con Il conte Dracula, di Jesús Franco, segue due ore dopo Director's cult con uno dei film della lista che preferisco, il malatissimo The wicker man. A più tardi, e ricordatevi di diffondere il verbo. Quello qua sotto.

lunedì 13 luglio 2015

disperatamente al margine di tutte le correnti


Ebbene sì, sono andato a vedere Il nemico invisibile. Perché Nicolas Winding Refn ci ha creduto e cacciato la lira (il dollaro, pardon). E perché Paul Schrader, nonostante The canyons, è stato un grande sceneggiatore e un buon regista, sempre o quasi osteggiato da Hollywood. Così, non so che film sarebbe stato se non ci avessero messo le mani prima della distribuzione, non lo sapremo mai, o forse occorreranno anni, chissà. Fatto sta che, a dispetto dei pessimi giudizi, la prima ora scorre che è una meraviglia e sono sicuro che, se al posto di Nicolas Cage (che peraltro qui fa la sua porca figura) ci fosse stato un Bruce Willis o qualcuno del genere, ci sarebbe un sacco di gente pronta a difendere o quasi a spada tratta questo onesto film un po' vecchio stile un po' no, neanche troppo politically incorrect, che si perde inspiegabilmente nell'ultima, ridicola mezz'ora, quella della resa dei conti, quella che avrebbe dovuto fare scintille. Fatti i dovuti distinguo, sembra di rivivere un po' la maledizione di American sniper: qui come lì dovrebbe, avrebbe dovuto esserci, il confronto-scontro tra l'americano (in questo caso un vecchio agente Cia che ha scoperto di essere affetto da demenza frontotemporale) e l'arabo (un invecchiato terrorista autoesiliatosi che tenta di sopravvivere nonostante la talassemia). Ma anche qui c'è troppo poco spazio per la seconda storia. E certi dialoghi, e certe situazioni poco credibili, non aiutano per niente. È bello rivedere Irène Jacob, lei sì che invecchia a meraviglia.

giovedì 2 luglio 2015

spoon river (ci stiamo invecchiando ragazzi)


Patrick Macnee, più inglese di qualsiasi 007, micidiale con la sua bombetta e il suo ombrello, quando i Vendicatori del fumetto si chiamavano Vendicatori e se dicevi The avengers parlavi di Agente speciale. Paolo Piffarerio, genio di tanto Carosello, mito nella realizzazione di Fouché, ma soprattutto colui che raccolse la pesante eredità di Magnus regalando un centinaio di meravigliosi Alan Ford alla mia infanzia. Laura Antonelli, sola, deturpata, abusata: altri ne hanno fatto un monumento per dimenticare un po’ più in fretta (cit.). Dick Van Patten, che a parte Colombo e Dallas credo abbia partecipato a qualsiasi altro telefilm dei suoi tempi. Sergio Sollima, padre e forse vittima del successo del Sandokan televisivo. Remo Remotti, Freud del più geniale e incompreso film di Nanni Moretti, ma soprattutto stralunato poeta che se ne voleva andare da quella Roma incazzata, puttanona, borghese, fascistoide che tanto somiglia all’Italia.

mercoledì 24 giugno 2015

bræðra hnífa


Ma quante lingue conosco da quando ho scoperto Google Translate? Anche in questo caso, si apprezzano commenti autoctoni, ovvero, in questo caso, islandesi. Ve lo ricordate Nord? Le atmosfere di Hrútar (titolo internazionale Rams, ovvero Montoni, anche questo già acquistato in Italia e di prossima - salcazzo quando - uscita) sono un po’ simili, ma si ride meno. Vincitore della sezione Un certain regard di Cannes, visto a Milano nella provvida rassegna della scorsa settimana, il film di Grímur Hákonarson è la storia di due fratelli pastori che non si parlano da anni ma che ricominciano a interagire fra loro nel momento in cui uno dei due capisce di averla veramente fatta fuori dal vaso. Neve, alcool, paesaggi desolati, un goccio di Coen sciolto nell’umorismo scandinavo. Non so se meritasse il premio, di sicuro merita l’ora e mezza di visione.

martedì 23 giugno 2015

arrivano i buoni


Vabbè, ve lo devo dire: speravo che qualcuno si incuriosisse del titolo cinese del post precedente. Che poi, chissà se ho scritto davvero quello che volevo scrivere. Conoscete un cinese che conosce il cinese? Potete mostrarglielo? Grazie. Tra i film di Cannes a Milano c’era anche A perfect day, che ho visto più che altro per curiosità, aspettandomi non molto. Lo spagnolo Fernando León de Aranoa (I lunedì al sole, Princesas) stavolta dirige un cast internazionale (ci sono un americano, una russa, un portoricano, uno spagnolo, ché detto così sembra una barzelletta) per quello che, esagerando, si può definire un sorta di M.A.S.H. delle associazioni umanitarie: infatti, tra una bevuta, uno scazzo e una scopata, scontrandosi con l’ottusità della guerra e della burocrazia, Benicio Del Toro, Tim Robbins, Mélanie Thierry, Sergi López e Olga Kurylenko cercano di dare una mano in qualche parte devastata dei Balcani. Dramma e commedia si alternano con un buon ritmo e senza buonismi. Forse però, paradossalmente, il limite è proprio nel ritmo: non c’è tempo (o non si vuole dar tempo) per le lacrime, e la risata a tratti diventa liberatoria, come nel beffardo finale. Un film imperfetto ma interessante. In Italia distribuisce Teodora, ma non si sa ancora quando. Da vedere in originale con i sottotitoli, perché ciascuno, almeno per un po’, parla la sua lingua.

domenica 21 giugno 2015

愛的後果


Liangzi, Tao e Jinsheng sono amici. Il povero Liangzi ama Tao che però sposa il ricco e coglione Jinsheng. Se questo fosse stato il nocciolo e non il punto di partenza di Shan he gu ren (titolo internazionale Mountains may depart), probabilmente non ne starei neanche a parlare. Il lungo prologo, ambientato alla vigilia del 2000, sembra un po’ un melodrammone neorealista trapiantato in Cina; poi però, dopo quasi tre quarti d’ora partono i titoli di testa (eh già!) e il film cambia musica (più o meno, ché il leit motiv è sempre Go west nella versione dei Pet Shop Boys). Scopriamo così che, in realtà, le vere protagoniste della pellicola di Jia Zhangke sono Tao e la Cina attraverso 25 anni di storia (sì, finiamo in un futuro che è poi abbastanza presente…): di fianco, addosso e tutt’intorno al bildungsroman di Tao, scorrono i profondi cambiamenti della società cinese con le sue mille contraddizioni. Certo, alcune idee lasciano il tempo che trovano (il taglio dell’immagine che man mano che si procede si allarga, il nome del figlio, il cane che doveva vivere solo 15 anni, la canzone che apre e chiude il film…). Inoltre il capitolo finale, con quella punta di edipo moralista, è un po’ irritante. Tuttavia alcune trovate sono meravigliose (il padre che voleva fa’ l’americano e si ritrova a non capire il figlio che parla solo inglese) e la storia trabocca di spunti che magari restano lì, e sedimentano, e tornano quando meno te lo aspetti, come ogni buon film dovrebbe fare. In Italia distribuisce Bim, ma non si sa ancora quando.


Bene, sappiate che questo post contribuisce al China day. Insomma, finalmente, dopo mesi, sono tornato a scrivere insieme al “solito” gruppo di amici di cinema. Ecco, di seguito, i loro contributi:

Storia di fantasmi cinesi (Siu-Tung Ching, 1987) sul Bollalmanacco di Cinema
The Killer (John Woo, 1989) su Director's Cult
Lanterne rosse (Yimou Zhang, 1991) su Scrivenny 2.0
I love Beijing (Ning Ying, 2000) su The Obsidian Mirror 
Infernal Affairs (Wai-Keung Lau e Alan Mak, 2002) su Non c’è paragone
Life without principle (Johnnie To, 2011) su Solaris
Il tocco del peccato (Zhangke Jia, 2013) su White Russian
Closed Doors Village (Xing Bo, 2014) su Mari's Red Room

venerdì 19 giugno 2015

pastorale francese (ovvero john c. reilly is the new james franco)


«Scusi, che rivista è?». La ragazza ha gambe interminabili e pantaloncini minuscoli, capelli corti e celestini e, se non fosse che se sta qua dentro è maggiorenne, la prenderei per una di 15 anni. Sto leggendo un articolo di Internazionale sulla cultura pop giapponese, onestamente una robetta, ma «Sa, quello nella foto è il mio manga preferito!». Le cedo la rivista, tanto l’ho già letta tutta, si spengono le luci, le gambe infinite si arrampicano sulla poltrona, cerco di non distrarmi più di tanto. Beh, Les cowboys, opera prima dello sceneggiatore Thomas Bidegain (ha scritto un sacco di robe belle, buttate un occhio su Imdb) in effetti non permette grandi distrazioni. Sì, forse come ha detto qualcuno del pubblico, in certi momenti il regista «la fa facile», ma la disperata ricerca, nell’arco di una ventina d’anni, di una ragazza scappata di casa per vivere con una specie di terrorista musulmano, prima da parte del padre, poi del fratello, ha momenti davvero notevoli. E, soprattutto, fa incazzare e pone di fronte a interrogativi mica da ridere. L’ormai onnipresente John C. Reilly si ritaglia il ruolo di un americano molto traffichino. Ah, il titolo del film gioca sul fatto che la famiglia in questione sia di vaccari patiti del country. Ma quanto è bella Tennessee Waltz? Peccato che nella colonna sonora non ci sia la versione di Leonard Cohen.

giovedì 18 giugno 2015

dio li fa e poi (qualcuno) li accoppia


Ma che meraviglia è il primo film “internazionale” di Yorgos Lanthimos? I rischi c’erano, i precedenti non mancano, l’europeo che prende in mano attori americani e… insomma, se non sei Sorrentino di solito fai una mezza cacata. E invece The lobster è un filmone. Con una prima parte che fa molto Buñuel, un finale forse aperto (ma di quelli che mi piacciono) e una parte centrale meno convincente ma bella lo stesso. In un presente distopico in cui tutti devono essere accoppiati (ma niente mezze misure, né bisex né scarpe 44 e ½) oppure vengono trasformati in animali, lo sfigatissimo Colin Farrell si rinchiude in un albergo insieme ad altri personaggi micidiali (John C. Reilly con la zeppola, per dirne uno) per trovare l’anima gemella. Cattivissimo fino in fondo, con dialoghi che non perdonano nella loro schiacciante e volutamente desolante banalità, un paio di scene decisamente memorabili (l'oliva e, ahia, il cane!), Rachel Weisz e Léa Seydoux che in un contesto del genere non potrebbero fare sesso neanche se girassero nude. Toni molto più leggeri dei film precedenti del regista greco, ma non per questo una pellicola meno riuscita. Premio della Giuria a Cannes più che meritato, e si capisce perché sia piaciuto ai Coen.

P.S.: non c’entra un cazzo ma oggi esce Infinitely polar bear. Che i soliti idioti titolisti italiani hanno ribattezzato Teneramente folle. Fidatevi, è una commedia deliziosa. Parola di poison («deliziosa») e anche mia.

venerdì 12 giugno 2015

trovo titoli bellissimi per post che non riesco a scrivere


Ciao, sono Dantès e ho il blocco dello scrittore. Più o meno, sennò col cazzo che stareste leggendo questo post. Insomma, da stasera vado via tre giorni a seguire la retrospettiva di Cannes a Milano. Tanto piove. E al mare ci si va la settimana dopo. Nel frattempo mi verrebbe voglia di divorziare da fratello e sorelle, ma pare che non si possa. E ho un nipote che va a lavorare all'estero di cui sono molto orgoglioso. Ho visto come sempre un fottìo di film, ma vi parlo brevemente di due. Uno è Leoni, scacatissimo (purtroppo) film italiano con Neri Marcorè di cui mi piacerebbe tanto un’opinione della mitica middle. Miiiiddle, se ci sei, batti un colpo (ehm, no, quello è l’altro film). Vabbè, insomma, ero curioso, se non altro per l’ambientazione (il Nordest in crisi) e l’argomento che poteva risultare “scomodo” (come avrebbe preso questo paese di merda la questione delle croci?). Sorpresa: il film mi è piaciuto. È parecchio divertente, ed è una commedia all'italiana abbastanza old style. Compreso l’happy end bastardo, credibile come una moneta da tre euro ma sanamente cattivo. Non so, ma ho l’impressione che Steno, Monicelli, forse anche Germi, avrebbero apprezzato. Ah, Treviso è tanto bella, peccato esistano i trevigiani. Poi, con ritardo clamoroso, ho visto The innkeepers di Ti West. Che io mica lo sapevo chi era. E, a dirla tutta, non lo so neanche adesso. Bello eh! Persino divertente. Almeno fino a tre quarti, forse anche più. Il problema è un finale che a dirgli banale gli fai un complimento. Un po' come il Babadook (che arriva fra qualche settimana anche al cinema, per quei due o tre che non l'hanno ancora visto). E sì che sembrava un film de paura finalmente diverso. Ritenta, sarai più fortunato. E porta con te di nuovo Kelly McGillis, nostalgia canaglia!

giovedì 4 giugno 2015

when a dumb man cries


Partiamo dal finale? Sì, insomma, a me ha ricordato la sequenza iniziale di Melancholia, ma con la voglia di mostrare l’opposto. Nel film di Von Trier era l’annuncio di qualcosa di impossibile, in Forza maggiore è una sorta di happy end: la vita è una merda, ma non possiamo farci niente e tiremm innanz insieme, nonostante tutto. Mi aspettavo di più dal film di Ruben Östlund che mi ero precocemente pentito di aver zompato al Torino Film Festival causa difficoltà d’incastri. Secondo Fofi è una specie di Bergman mainstream: io però, a parte la comune origine scandinava dei due registi, non ci ho visto molto di più. Ed è un peccato, perché il film comincia bene, benissimo: tutta la prima parte, a cominciare dalle foto, è praticamente perfetta, annuncia bene quello che si aspetta. E quella montagna, quella neve, quella un po’ troppa natura che il giorno dopo avrei trovato in un film che è invece una perla, Youth (ne parlerò, sì), ci stava alla perfezione. Uh, e ci si diverte, eh, c’è la giusta dose di cattiveria e di ironia, la critica brutale al concetto di coppia o di famiglia, l’analisi dell’ipocrisia (toh, come Youth, ma una scalinata più giù). Poi però il regista ambisce all’ammicco, e si vede, soprattutto attraverso i personaggi secondari. E il protagonista a un certo punto crolla e piange sullo schermo. Tanto. Beh, di solito è il contrario. Ed è un uomo con le palle. Io.

giovedì 21 maggio 2015

e poi se la gente sa, e la gente lo sa che sai parlare di cinema


Sto per andare a pranzo quando il mio collega E. mi ferma e mi chiede «Hai già visto Mia madre?». E insomma, è bello che cinque o sei dei miei colleghi siano sempre curiosi di sapere cosa penso di un film. Poi però guardo l’orologio. E non per fare quello a cui cade la penna, anche se taccio spesso di ipocrisia quelli che la penna la tengono in mano, magari a mezz’asta, quei cinque, dieci, venti interminabili minuti in più. «Ne parliamo alle due e mezza?» rilancio io. Perché in realtà non so bene cosa dirgli, tanto che non so bene neanche cosa scriverne qui. Ma poi cedo alla lusinga e abbozzo due frasi, tre, quattro. Ho visto Mia madre una domenica mattina a Milano, presente Nanni Moretti. Mi aspettavo un film diverso: il titolo, in fondo, un po’ inganna un po’ no. Non è la storia di una persona che muore, ma è l’elaborazione di un lutto, fin dall’inizio. Una doppia elaborazione, checché ne dica il regista. Perché, se così non fosse, Moretti non avrebbe usato libri, mobili, vestiti di sua madre per creare il personaggio interpretato (splendidamente, ça va sans dire) da Giulia Lazzarini. Di quella mattina però ricordo le domande stupide di due psicologhe della domenica (beh, in fondo era domenica!) e la docilità, la disponibilità di un Moretti che non ti aspetti. E poi il senso di disagio dato dal fatto che, a parte quelle due scene di cui ho già parlato qui e in parte per il finale, non ho pianto. È come se il film mi fosse arrivato solo fino a un certo punto. Come se John Turturro, fenomenale quanto eccessivo, scatenato nelle sue improvvisazioni (il sogno in macchina e il film raccontato in osteria sono opera sua), avesse alleggerito un po’ troppo il carico che mi aspettavo di portare. Oh, ma poi c’è Margherita Buy. C’è la scena in cui si affaccia al balcone e io penso «Quanto è sempre bella?!?» e - tac - le guardo i piedi. No, nessun feticismo, ma penso a una delle prime sue apparizioni tv, timidissima al Costanzosciò, in cui parlava con imbarazzo delle sue fette. O alla prima e unica volta che l’ho vista dal vivo, in stazione centrale, sempre Milano, mentre prende un taxi con Silvio Orlando, ai tempi dello splendido Fuori dal mondo. Mi dico che Moretti è riuscito a trasformarla in Moretti in un modo assolutamente perfetto. E il sogno con la fila al Capranichetta è grande cinema, puro.

mercoledì 20 maggio 2015

plokhoyvolya


Affronto la sesta serie di Dexter (vabbè, ma allora ditelo che da assuefazione!), frugo nel cruscotto della mia DeLorean dove trovo cose degne del carbonio-14, mi preparo a una caccia al tesoro con la poison e la tiz, confermo che al Salone del Libro tante, troppe persone non sanno quanto costa, in tutti i sensi, un libro. In tutto ciò, ho visto Leviathan di Andrei Zvyagintsev. E le prime cose che ho pensato sono state: 1) che brava la doppiatrice del giudice, pazzesca; 2) questo film dovrebbe vederlo la ms. Non è un film che mi ha fatto impazzire, è un po’ tanto lungo e non solo per la durata, però ci sono delle cose veramente notevoli. Innanzitutto, il finale, spietato, lugubre, cattivo. Gli interpreti, con quell’aria da Verga russo. Il dialogo col prete, inquadratura fissa, micidiale, da studiare nelle scuole di cinema. La vodka, che se mi piacesse sarei uscito con una voglia di sbronza colossale. Quel mare di Barents che sembra più o meno un block salmastro. E la scena del tiro a segno in spiaggia, che racconta della Russia di oggi più di un numero di Internazionale.

martedì 12 maggio 2015

il 730 è il mio fantasma del natale passato


Forse non era la serata giusta. Voglio dire, vedo la foto di una persona a cui sono stato legato tanti anni fa, che oggi è tale e quale a tanti anni fa, forse persino meglio, in un bianco e nero che quasi mi commuove, ché vorrei farle io, ’ste foto. E poi sono lì che, mentre spignatto, suona alla porta un cosetto magro magro un poco mammulino (come che vuol dire mammulino? ma se non conoscete le lingue ditelo!) e che, se avesse il testone, somiglierebbe a me alla sua età (ma mi somiglia già, ché alla sua età anch'io ero un viavai solitario in un balcone), con la mamma dietro che si scusa, ma lui ci teneva tanto a dare i confetti a tutto il palazzo per la sua comunione. E io penso: no, questa cosa qui io non l’avrei proprio fatta alla sua età. E poi zietta. Che mi fa morire, in senso proprio e figurato, che non ricorda il nome del pesce che cucinerà ma si sbatte finché non me lo dice e penso «la adoro» ma subito dopo mi fa incazzare per qualcos’altro. Azz, Margherita Buy e la macchina contro il muro, Margherita Buy e «sono solo tre passi» e penso a mia madre, senza corsivo, che mica si parla di film, stasera. Ah, già, il setteetrenta. A caccia di ricevute mi imbatto in gatto e gatta. Ecco, la frittata è fatta, anche se sto cucinando spezzatino.

giovedì 23 aprile 2015

e dantès accese quasi la tv (ché poi sennò vi preoccupate)


È un periodo di lavoro matto e disperatissimo. Almeno fino alla prossima settimana, quando il lavoro ci sarà, ma sarò io a gestirmelo quasi interamente. E la cosa suona diversa, quasi come fosse musica. Un po’ sperimentale. Pensate a Frank Zappa: avete presente uno di quei brani apparentemente wtf ma sapeste cosa c’è dietro? Ecco. Per il momento, poco cinema. In compenso, tanti telefilm arretrati. Mi sono sparato in pochi giorni 1992 e Gomorra. Chapeau. Chapeau per Gomorra, soprattutto. L’episodio sette è da programmare nelle scuole: il più completo, il più complesso, il più vicino all’opera di Saviano. Da programmare nelle scuole come 1992. Che qua e là pecca di ingenuità ma che vanta un cast perfetto (Tea Falco? uh che palle, ma i fattoni milanesi li avete mai sentiti?) e ricostruisce un come eravamo/come siamo diventati che, scevro di caricature, al momento non ha eguali. Martedì ho provato a mettere su Blackhat. A parte i sottotitoli, che ho trovato male tradotti in inglese dal russo (non chiedetemi come lo so, lo so), dopo tre quarti d’ora mi sono annoiato. Ma trattasi di Michael Mann, tornerò all’attacco sperando di sbagliarmi. Solo che, staccando da Michael Mann ho acceso quel coso col tubo catodico (eh, sono antico, che volete fare) e ci ho trovato Squadra mobile, spin off di Distretto di polizia. E Distretto di polizia è stata una delle mie passioni, almeno finché non hanno deciso di ammorbidire i toni e risparmiare sugli attori. Per questa serie hanno puntato su personaggi tridimensionali, perlopiù interpretati da attori veri. Peccato che la messa in scena e i dialoghi, signora mia, siano da tv per pensionati. Pensionati italiani, quindi molto vecchi. Non bastano le parolacce se i superpoliziotti con superproblemi poi si muovono in situazioni da Un medico in famiglia. Così sono tornato al computer e ho ripreso il mio ammmore Dexter. Ormonalissimo Dexter seconda serie. Il che vuol dire che il primo che fa spoiler non lo faccio più amico. Si sappia.

mercoledì 15 aprile 2015

l(’)ago del leone


Per l’invenzione del titolo di cui nessuno capirà il sottotesto non è stato maltrattato nessun animale; al massimo è stata pacioccata (nei limiti permessi dalla medesima) una gatta stronza e un po’ puttana, che mi è sembrata ottimista ma non so quanto di sinistra. Ho fatto una cosa che, colpevolmente (forse), non facevo da tempo: andare a conoscere qualcuno che ha un blog. Nella fattispecie, roceresale. Ché mi piace come scrive da un sacco: le diedi anche dei premi quando lei non sapeva manco p’o cazzo chi fossi. Gli è che, di recente, complice fb, ci siamo anche conosciuti meglio. Indi(e) (sì, lo so, ho già dato con ’sto gioco di parole!), sono andata a trovarla sul lago. Quello grande, ma non abbastanza: una di quelle nozioni inutili che però sembrano sopravvivere all’analfabetismo di ritorno. Ho ragione, roce’? Perché questa donna insegna, quindi lo sa. E, oltre a essere molto divertente, ha molto altro in comune col sottoscritto, compreso il disprezzo per buona parte dell’umanità (vero poison?). Vabbè, ma come si dice in Lombardia (o nei posti che vorrebbero essere lombardi), «chi si loda s’imbroda», quindi cambiamo discorso e parliamo proprio di lombardi. I milanesi al lago sono precisi a quelli di 1992, ma rinchiusi dentro Vacanze di Natale, il primo. E pazienza se non sono a Cortina, parlano uguale. Disturbano uguale. Occupano uguale: aria, terra. Lago, no. E sì che io almeno un pediluvio l’avrei fatto tout de suite. Però ho preso una bella tinta, vivaddio, che in questo momento serve anche alla mia pelle un po’ provata (avete mai provato la mia pelle? adesso non ve la consiglio). Ho suonato delle maracas un po’ giocattolo tentando di stare a tempo con lo djembe, ma senza smettere un attimo di pensare a Parco Sempione degli Elii: la cosa fica è che mi hanno fatto delle belle foto. Quasi a mia insaputa, peraltro. E poi che altro? Musica varia, che è sempre un piacere. Scalini e ascensori dentro la montagna, tacchi altrui e intervalli di pranzo. Mangiato, tanto. Meglio a casa che fuori. Parlato, pure troppo, ché non sono abituato. Conosciuto una bella persona, di cui adesso, almeno, so un po’ di più.

giovedì 9 aprile 2015

è il tempo che è finalmente o quando ci si capisce


- Non torneremo mai dove eravamo.
- Dove eravamo?
- Nel posto giusto.

Me la ricordo quella mattina al Torino Film Festival, gli occhi gonfi (e non per il sonno), la voglia di sapere come andasse a finire, la delusione, l’incazzatura, la fuga nella profumeria dei ricchi a fingersi il ricco, appunto, che veste da povero ma dentro di sé quante ne sa signora mia! Insomma, non essere riuscito, causa esaurimento posti, a vedere di seguito la parte Lui e la parte Lei de La scomparsa di Eleanor Rigby m’è costato un bel po’ di euro. Ma ero così pieno e così triste e così boh che, insomma, dovevo consolarmi. A pensarci, però, forse è un bene aver visto i due film a distanza di tempo (del terzo capitolo, Loro, inutile parlare, perché è soltanto più o meno un Lei con qualche inserto di Lui): perché il caso è un po’ come dio, sappiamo che non esiste ma, certe volte (in certi casi…), il dubbio ti viene. Sono mesi in cui elaboro tante cose più importanti, figuriamoci se non trovavo un po’ di tempo per elaborare anche il film di Ned Benson. Dal punto di vista squisitamente cinematografico, il capitolo Lui è il migliore e, comunque, sebbene siano abbastanza indipendenti, se volete vederli entrambi ha più senso - per dare maggiore continuità alla trama - che partiate da quello. La storia, vista dall’ottica di lui o di lei, è quella dell’elaborazione di uno dei lutti peggiori (la morte di un figlio) ma anche dell’ingresso in un mondo adulto che fa piuttosto schifo da parte di Jessica Chastain e James McAvoy (tre sole parole: perfetti quanto fastidiosi, come da copione). Lei è Eleanor, chiamata così da un padre psicologo ex fricchettone (William Hurt) in onore dei Beatles, ma con la canzone non c’entra molto: la sua solitudine è altrettanto profonda ma non è così senza speranza. Il finale, aperto, comunque vada è un happy end. Si perdona qualche sbavatura (il personaggio di Isabelle Huppert, l’improbabile conclusione dell’incontro in discoteca…). Ci si appassiona, e a tratti si piange. Come vitelli. O come me al cinema. Guardare le lucciole non sarà più la stessa cosa.

martedì 7 aprile 2015

il signor g e l’amicizia (o il weekend dei recuperi)


Alla fine io e G. ci siamo rivisti comme il faut. A cena come i vecchi tempi, io porto il vino, voi il vino, la musica e il cibo, e insieme portiamo un tot di mesi (non contiamo quanti) di cose da raccontarci. Che poi il bello è questo: che, a parte i rispettivi aggiornamenti, sembrava non ci vedessimo da una settimana. Di nuovo, c’erano la barba di G. e un bambino che non è più bambino. E insomma si è cianciato di vacanze e di shiatsu e di Vinicio, e che forse Calitri a fine agosto non è niente male. È stato solo l’inizio di un lungo fine settimana, e poco importa se venerdì ho ancora lavorato. Ché sabato mattina è stata una full immersion di fotografie, quel ritorno ai miei anni Ottanta-Novanta con Letizia Battaglia a Bergamo (ma quelle didascalie… uhm, siamo sicuri fosse così importante sottolineare il partito di appartenenza di certi personaggi?), poi via a Milano a vedere la bocca di Mick Jagger immortalata nei primi Settanta da Jim Marshall ed esposta nel negozio Leica (ma quanto cazzo costano quelle macchine fotografiche?!?), quindi Robert Capa nell’Italia del ’43. Capa, ancora lui. E, a un certo punto, parafrasando Silvestri, me fece mele a Capa. E poi sorella in trasferta, che è bello ritrovare, in tutti i sensi, perché a volte non basta la presenza e sarebbe stato bello stare insieme un po’ di più. Film no. Ma solo perché gli orari, signora mia, non tornavano. Un po’ come i conti. E, da conte, non sarei neanche tornato, non ancora, ché c’è una gita al lago in sospeso, ma è solo rimandata.

giovedì 2 aprile 2015

cambi faccia cambi stile cambi cambi parole


Ci si può incazzare per un film che t’è piaciuto? Ma anche sì. Perché Latin lover aveva grandi potenzialità. E alcune ottime idee che a volte mette in piazza serenamente. Ma è come se Cristina Comencini qua e là se la fosse fatta sotto: si nota di più se lo faccio o non lo faccio? se oso o se rimango un po’ così, in disparte, con quelli che mi dicono ma dai vieni, colora, pasticcia, imbroglia che questo è il film giusto ma io no? Insomma non so, a me la storia del raduno della famiglia internazionale del compianto attore Saverio Crispo (un compendio di Gassman-Tognazzi-Volontè-Sordi-Manfredi-Chiari interpretato dall’ottimo Francesco Scianna, perfetta faccia di gomma, così malleabile anche nell’immaginario dello spettatore proprio perché non abbastanza nota) sarebbe anche piaciuta di più. Ma manca qualcosa. A fronte di tante riuscite prove d’attrici (la povera Virna Lisi, e poi Angela Finocchiaro, Marisa Paredes, Candela Peña, persino Valeria Bruni Tedeschi che finalmente ha scoperto l’autoironia, fino alle altre meno note ma non per questo meno convincenti protagoniste), a fronte di idee onestamente fighe (insomma, diciamocelo, l’amore di e per Saverio è una metafora bellissima dell’amore di e per il grande cinema italiano che fu) come i finti spezzoni di film e documentari, la scena dell’inseguimento del fotografo in stile Sergio Leone o anche il riuscito colpo di scena su cui forse qualche gayo noioso avrà da ridire, manca il coraggio di andare fino in fondo. Poteva essere un gran film, è solo una buona commedia che parte come un vecchio diesel in salita ma poi fa il suo onesto dovere fino alla fine.

mercoledì 1 aprile 2015

se davvero ci si preoccupa della sensazione di contatto tra i due cazzi durante una dp il mondo deve finire oggi


Ciao, sono Dantès e sono un uomo discretamente felice: ieri, con un po’ d’anticipo, il coniglietto pasquale, nella persona di me medesimo, mi ha regalato tre dvd che aspettavo da tempo. Il primo è Todo modo, capolavoro di Elio Petri più o meno invisibile fino a qualche anno fa e di cui avevo parlato già qui. Il secondo è la trilogia de La scomparsa di Eleanor Rigby, di cui vi dirò presto. Il terzo è la versione uncut di Nymphomaniac. Dopo 13 mesi e mezzo ho visto la seconda parte e… che dire, se si esclude il prefinale un po’ troppo spiegato che però si riscatta con un finale prevedibile quanto perfetto, io amo Lars Von Trier. Anche stavolta, a parte la doppia penetrazione (che però finisce quasi subito e ci scappa da ridere), non propone chissà poi che sesso non già visto. Insomma, il genio danese ha preso un po’ tutti per il culo, e neanche con troppa vaselina (il capitolo dedicato all’aborto è devastante). Narrativamente più scorrevole della prima parte, Nymphomaniac vol. II, con la solita miscela di ironia e crudeltà più un goccio di metacinema (l’anticipazione dell’incendio dell’auto), segna la discesa agli inferi e la fiera risalita di una donna che tutti vorrebbero inquadrare nella loro visione del mondo e che, invece, si ostina a sbandierare la sua diversità davanti a tutti. Alla faccia di chi parla di misoginia (ma che film hanno visto?). Da bere in un sorso i dialoghi tra Stellan Skarsgård e Charlotte Gainsbourg che stavolta, con il solito tono spiacevole per orecchie benpensanti, spaziano dalle deviazioni della religione cattolica alle storture della democrazia. Willem Dafoe e, soprattutto, Udo Kier, sono solo figurine. Adorabili figurine.

mercoledì 25 marzo 2015

faccio cose, vedo gente


Dice: che fine ha fatto Dantès? Sto qui, solo che è più semplice e rapido commentare che scrivere. Sono pieno di lavoro fin sopra i capelli, anche quelli che non ci sono più da 25 anni. Nel frattempo ho ritrovato un amico, sfregiato la fronte, finito il terzo livello di shiatsu (adesso posso cominciare a praticare, tra l’altro), visto un tot di film, pensato alle prossime vacanze. Di Foxcatcher e Una nuova amica la poison ha scritto esattamente quello che avrei detto io. No, non è del tutto vero. A me Channing Tatum è piaciuto molto. E la bionda sciapa del film di Ozon è davvero poco credibile come gnocca preferibile alla roscia che fa tanto tanto più sesso. Dice: gentlemen prefer blondes. Mah. Io comunque ci sono. E appena ho due minuti di tempo vi parlo anche d’altro. Adesso scusate, ho una cassetta… no, un file, beh insomma una registrazione da trascrivere. Più o meno. Cheppalle.

mercoledì 11 marzo 2015

l’imprevedibile virtù della perseveranza


Si sa, sono curioso. E Al Pacino… beh, non ne ho una venerazione come qualcuno che passa talvolta da queste parti, ma mi è sempre piaciuto. Barry Levinson è uno di quei registi da “solido cinema classico” che mi ha spesso dato soddisfazione, Philip Roth è uno dei miei romanzieri americani preferiti. Potevo chiedere di più? Così ieri sera ho visto The humbling. Che ha un solo, grosso difetto: è stato girato più o meno nello stesso periodo ed è uscito appena un mese dopo l’acclamato Birdman. Ed è stato più o meno massacrato da tutti. Ingiustamente. Perché tutti si sono messi a far confronti, visto che si parla in entrambi di teatro. Che poi, a dirla tutta, i primi dieci minuti di The humbling (che, ripeto, è tratto da L’umiliazione, scritto nel 2010) e il finale, beh, ricordano un po’ certe cose che ci sono anche nel film di Iñárritu. Certo, a Levinson non importa che si sbavi dietro la sua tecnica: un artigiano non ha bisogno di effetti speciali per stupire, stupisce con quello che ha. E quello che ha è un romanzo con tutte le ossessioni di Roth: l’esplorazione della sessualità, la passione per le donne giovani, la paura della vecchiaia, della morte, dell’oblio. E il film è divertente, tragico, con qualche battuta memorabile e alcune sequenze davvero riuscite (la scena dal veterinario, le istruzioni per la pulizia dei dildo, quella - tristissima - della sala d’attesa). Pacino è splendido, Greta Gerwig (ah ah, proprio quella Frances là) da il meglio di sé, Dianne Wiest ha un piccolo ruolo notevole, Shakespeare e il suo Re Lear sono una sorta di coro greco, meglio di una voce fuori campo. Non siamo dalle parti del capolavoro, neanche annunciato: solo un buon film che difficilmente troverà la strada della nostra distribuzione.

martedì 3 marzo 2015

la grande abbuffata


La prima notizia è che io, poison e la Bionda siamo andati al cinema insieme dopo un sacco di tempo. La Tiz non pervenuta, ma l’abbiamo pensata durante le voci fuori campo, che lei detesta. E anch’io, teoricamente, ma dipende. Tipo in Blade runner, sono fondamentali. Generalmente, un buon noir, che sia ambientato negli anni Cinquanta o in qualche secolo a venire, ha, per una strana legge non scritta, bisogno della voce fuori campo. Tuttavia, Vizio di forma (in realtà Inherent vice, Vizio intrinseco) ha tra i suoi (pochi) vizi di forma proprio la voce fuori campo: troppo letteraria. Certe cose se le leggi sono bellissime, se le ascolti durante un film ti dici «boh!». Poi ci sono mille miliardi di personaggi: all’ingresso dovrebbero munirti di un bloc notes, una matita e un tot di canne già pronte. Tante, che la durata del film è 150 minuti. E poi, onestamente, ti viene voglia, un po’ come quando nei film sono tutti alcolisti: esci che senti già sulla punta della lingua il caldo pizzicore del whisky che correrai a bere. Detto questo, potreste pensare che il film di Paul Thomas Anderson non mi sia piaciuto. E non avete capito niente. Come dire che, siccome Shasta (Katherine Waterston e le sue tette Seventies) viene considerata vizio intrinseco, non la fanno salire sulla barca. E invece sale. Cosa fa, non lo sapremo mai. Ma è così importante? Il film (non so del romanzo di Thomas Pynchon, però sono curioso di leggerlo) è sì bulimico, eccessivo in ogni aspetto, tanto, pure troppo. Ma è una gioia per gli occhietti santi di chiunque. È Philip Marlowe e Paura e delirio a Las Vegas insieme. È tanto divertente. Ha una grande colonna sonora. E ha un cast spettacolare: Joaquin Phoenix, Josh Brolin, Owen Wilson, Reese Witherspoon, Benicio del Toro, Eric Roberts, persino Martin Short (ma dove l’hanno ripescato? ah, è invecchiato malissimo).

giovedì 26 febbraio 2015

l’occhio spento, il viso di cemento


Come promesso a Fascino, l’amico immaginario di poison (lui non ha un blog, che io sappia), domenica mattina sono andato nella multisala comoda non ancora corrotta dall’intervallo, per vedere, insieme a una decina di insonni, mentre tutto intorno era carnevale (giuro!), bambini pazzi per i Pokémon e coppiette in astinenza davanti alle sfumature di grigio, Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza. Ora, il regista svedese Roy Andersson me la può contare da qui a infinito che per il titolo si è ispirato a al quadro Cacciatori nella neve di Pieter Bruegel il Vecchio (fascino e paura i dipinti suoi e del figlio, per me, da sempre): a me sembra un’adorabile presa per il culo di certi polverosi titoli da cineforum anni Settanta. Sbaglierò? Chissà. D’altra parte Andersson gioca e si diverte, non ci sono dubbi. Diviso in brevissimi capitoli in campo lungo, fisso, il film alterna sghignazzi e perplessità, come una versione ripulita e colta di Cinico Tv. Inizia con un delizioso terzetto di episodi sulla morte e prosegue con, tra gli altri, un tizio che ha perso un appuntamento di lavoro, un bar dove un vecchissimo sordo passa le sue giornate a bere, la fine dell'amore di un'improbabile coppia di ballerini, il gayo re Carlo XII che si avvia e torna verso una sconfitta in battaglia (ma lui e la truppa sono totalmente anacronistici rispetto al resto) e, soprattutto, una coppia di disadattati venditori di vecchi e assolutamente non divertenti scherzi di carnevale. Il tutto sulle note di John Brown's body, le cui parole cambiano continuamente in base al contesto. Siete scappati? Io direi che è il caso di dargli un’occhiata, senza preconcetti e con una sana voglia di surrealismo. Il Leone d’Oro a Venezia mi sembra esagerato, ma mi è venuta voglia di vedere i primi due capitoli della sua "trilogia sull'essere un essere umano” (anche questo, a pensarci, un titolo fichissimo).

mercoledì 25 febbraio 2015

col tipico ritmo incalzante di cassa, rullante e charleston


Avevo zompato allegramente Whiplash al Tff perché, qualche anno prima, al medesimo festival avevo visto l’esordio del regista, Guy and Madeline on a park bench: un inutile compitino da scuola di cinema, una presuntuosa robetta in bianconero a base d’ammore e musica che avevo abbastanza detestato. Poi però di Whiplash sono venute fuori le recensioni dei primi blogger, di quelli che scavano nello streaming come cani da tartufo, quindi le candidature all’Oscar, infine l’uscita italiana. E io sono curioso come una scimmia: potevo non vederlo? Risultato: il ragazzo ha fatto molta strada, ma non ha ancora trovato il cuore. Damien Chazelle ha talento. Ha tecnica registica. Ha imparato a usare la musica (e meno male, visto che la musica è l’anima di questo film). Ha anche scelto due attori che funzionano molto bene: J.K. Simmons (Oscar meritato) gigioneggia alla grande a metà strada tra il sergente Hartman e la versione stronza di Miyagi, Miles Teller ha sufficientemente l’aria da batterista bravo ma sfigato che sogna di diventare un mito come Bird sminchiandosi le dita fra lacrime, sudore e sangue. Dici: scusa, ma Charlie "Bird" Parker non suonava il sax? Che c’entra, il ragazzo musicalmente si ispira a Buddy Rich. Purtroppo Rich non è morto giovane, non era triste, pare fosse piuttosto stronzo e ha anche fatto in tempo a fare una figlia che da ragazzina aveva una voce (e una presenza) davvero inquietanti: insomma, non proprio il mito adatto a uno sfigato un po’ fiero di esserlo. Di conseguenza, molto meglio Charlie Parker e l’aneddoto su cui ruota tutto il film: pare che Bird sia diventato Bird solo dopo aver schivato un piatto lanciatogli addosso da un furibondo Jo Jones. E a forza di sentirlo ripetere, ’sto benedetto aneddoto, a un certo punto mi è apparso il buon vecchio Clint Eastwood con una sedia da regista in mano, pronto a scaraventarla sul malcapitato Chazelle: così la prossima volta magari farà un vero cult, e non un film che vive di una prima mezz’ora spettacolare, di un finale dal ritmo strepitoso, ma anche di una parte centrale fiacca e prevedibile, compresi il suicidio e l’inutile parentesi sentimentale che salverei solo per la scena della pizzeria.

lunedì 23 febbraio 2015

di cosa parliamo quando parliamo d'autore


Spoiler: questa recensione forse non vi piacerà. Ok, io un po’ me lo sentivo. Ho un sesto senso per certe cose. Il giovedì apro la pagina del cinema su Vivimilano (niente battutacce, su) e leggo quei due simpaticoni di Pezzotta e Mazzarella: talvolta sono d’accordo con loro, talvolta no, ma quando leggo le loro recensioni cattive su film che a tutti gli altri sono piaciuti, occazzo, è quasi matematico che non mi piaceranno o mi lasceranno quantomeno perplesso. Finalmente ho visto Birdman o L'imprevedibile virtù dell'ignoranza, trionfo agli Oscar di stanotte. Una bellissima idea, diventata una bella storia girata da Alejandro González Iñárritu con un godibile tot di furberie (la musica spettacolare che entra ed esce anche “dal vivo”, gli infiniti finti piani sequenza…). Un film interpretato anche molto molto bene: Michael Keaton (sarebbe stato un Oscar meritatissimo) e Edward Norton danno prove eccellenti, ma anche Emma cheocchigrandichehai Stone, Naomi Watts e tutto il resto della truppa. Però. Però ha una prima parte che, per stereotipi, sembra l’equivalente de Il cigno nero ambientato nel mondo del teatro di prosa. Ha molti dialoghi che non si possono sentire: alcuni sembrano i commenti al film di quelli che poi si troveranno in pizzeria. Infine c’è qualche malickeria qua e là. Ah, la trama si capisce dove andrà a parare a due terzi (oh, io l’ho capito). Una bella occasione. Un po’ sprecata. Ma almeno viene voglia di rileggere Raymond Carver.

venerdì 20 febbraio 2015

provvisorio l'amore che c'è sì ma forse no


È bello ritrovare una vecchia passione. Che magari non ami più come un tempo, o forse non ami più e basta, però state bene insieme il tempo che state insieme e amen. È più o meno quello che ho pensato guardando a Berlino Eisenstein in Guanajuato, il nuovo film di Peter Greenaway. Un po’ la temevo questa mezza biografia del mitico regista russo venuto in Centro America per girare Que viva Mexico!, ma ho dovuto ricredermi. Dopo le deviazioni onanistiche de Le valigie di Tulse Luper, Greenaway torna alla grande, fa sorridere, riempie lo schermo e il cuore. Non so se Sergej Ėjzenštejn fosse davvero il gayo fuori di testa dipinto dal regista gallese, fatto sta che è impossibile non appassionarsi al suo modo di vedere il cinema e, soprattutto, la vita. Greenaway non rinuncia quasi a nessuno dei suoi vezzi (compreso l'infinito finto piano sequenza del litigio a colazione), ma non sono quasi mai fine a se stessi: li mette al servizio di uno strepitoso, incontenibile (anche fisicamente) Elmer Bäck, E, ripeto, ci si diverte. A tratti ci si emoziona. Quasi sempre, se un po’ si ama il cinema, si segue a bocca aperta.

giovedì 19 febbraio 2015

poliziotto di contrabbando


Ma com’è che i film belli con Tim Roth da un po’ di tempo girano solo per festival? Temo che, dopo The liability, accadrà lo stesso per questo 600 millas, opera prima di Gabriel Ripstein, regista messicano figlio del più celebre Arturo. Il bello è che parte come una roba quasi banalotta, con due ragazzetti che sognano di fare i gangster spacciando armi e droga fra Usa e Messico e, a due terzi, si trasforma in una caccia all’uomo con tempi dilatatissimi da cardiopalma stile Tarantino (uh, la scena della colazione!) per finire con un finale inaspettato e bastardissimo da applausi. Forse una delle vere sorprese di Berlino.

mercoledì 18 febbraio 2015

la verità ti fa male lo so


Ma sono proprio contento che l’Orso di cristallo (giuro, esiste), ovvero il premio di noiggiovani al film della sezione Generation, sia andato a Flocken di Beata Gårdeler. Che non è propriamente un film per ragazzi, almeno non nell’accezione italiana. Ma in quella nordeuropea sì, tant’è che si tratta di una pellicola svedese. La storia è quella di uno stupro non creduto, in una piccola città bastardo posto dove tutti sono amici finché tutto va bene, salvo bastonarsi lato sensu e lato proprio quando i conti non tornano, specie se la vittima ha una madre smandrappatissima e il violentatore è uno dei ragazzi più popolari della scuola. Insomma non un film da tarallucci e vino. Ah, (spolier) la foto sotto è solo la migliore che ho trovato: non immaginatevi lacrime e sangue, a parte un pestaggio e un cavallo morto. La protagonista, Fatime Azemi, è perfetta, ma anche il resto del cast non scherza. Non ci si annoia mai, in compenso ci si incazza tantissimo.

martedì 17 febbraio 2015

e fuori nevica


Ho fatto bene ad aspettare qualche giorno prima di scrivere del nuovo film di Wim Wenders, presentato alla Berlinale insieme ad alcuni dei suoi migliori film del passato in occasione della consegna dell'Orso d'oro alla carriera. Il fatto è che Everything will be fine non sembra un film di Wim Wenders, e questo, lì per lì, ti spiazza un po’. E poi, dopo una parte iniziale notevole, non sempre regge il giusto ritmo per le sue due ore di durata. Tuttavia, metabolizzando, dici «cazzo». Sebbene non esente da difetti (la lunghezza in primis, ma anche il fatto che l’unico a “invecchiare” verosimilmente sia il bambino), questo drammone dalla sceneggiatura essenziale, che vede nell’arco di dieci anni evolversi quasi sempre in parallelo le esistenze di Charlotte Gainsbourg e di James Franco, colpevole di averle ucciso accidentalmente uno dei due figli investendolo con l’auto, funziona. E fa male, e scava, e qualcosa, prima o poi, dentro di noi trova. Forse non un Wenders fondamentale, ma un film sincero, doloroso, pieno.

lunedì 16 febbraio 2015

non è una berlinale per animalisti


Non l’avrei mai detto, ma sono contento che a Berlino l'Orso d'oro sia andato a Pablo Larraín. Ah, non l'ha vinto lui? Solo quello d'argento? Primo premio politico a Taxi? Vabbè, facciamo così: il “mio” premio berlinese va a El club. Sorpresa, poison? Ti fidi una volta di me? Insomma, lo sappiamo: Larraín è uno di quei registi che vuole essere sgradevole. Non come Malick: sgradevole come Gaspard Noé, per dire. Uno il cui film più “gradevole” è No-I giorni dell’arcobaleno, uno che ci colse in contropiede, mi lasciò perplesso e fece cacare in molti, quando a Torino anni fa si fece conoscere con Tony Manero. Tuttavia, ho sempre pensato che fosse un regista interessante. Ed El club è probabilmente la sua opera migliore (ma non ho visto Fuga, il suo debutto). Un gruppetto di preti (tra i quali l’immancabile Alfredo Castro), perlopiù pedofili ma non solo, che la chiesa ha isolato in una villetta dove vivono dimenticati da dio e dagli uomini, sono accuditi da una ex suora che ha anche lei una storia tremenda alle spalle; il loro passatempo principale è allenare un greyhound che corre e vince quasi sempre, rimpinguando le casse del gruppo. Poi arriva un altro prete e le cose si complicano. Il regista cileno stavolta mette da parte quasi totalmente l’elaborazione dell’incubo Pinochet e prende di mira la chiesa con un pamphlet durissimo e crudele, uggioso e a tratti claustrofobico, dal finale senza speranza, ma da cui si esce davvero soddisfatti. Poveri cani, che fanno compagnia all’orso bianco di Nobody wants the night, al cavallo di Flocken (ne parlerò dopodomani), alle bestie vivisezionate di Angelica (ne parlerò, forse, più in là).