giovedì 24 novembre 2011

put on your red shoes and dance


Sapevo chi era Pina Bausch, merito di F. e dei suoi studi. Mai vista dal vivo, anche se - con coraggio dettato dall’ammmore - avevo guardato la videocassetta di Die Klage der Kaiserin, uno strano non-film scritto, diretto e coreografato dalla stessa. Wenders ha spesso dato prova di eccellenza nei documentari (forse più che in tanti film) e la mia curiosità su Pina era tanta, almeno quanto quella mostrata da Unfattovéro. E così, con gli occhialoni per il 3d che sembravano quelli del vecchietto di Up, ci siamo immersi nell’atmosfera del Tanztheater Wuppertal. La storia è nota: il progetto del film arriva da lontano, poi la Bausch muore e un film con Pina diventa un film per Pina. Il che non sempre evita la retorica degli intervistati su quanto fosse fico, interessante, emozionante ecc. lavorare con la coreografa. Tuttavia ha punte di genialità - e di forte impatto emotivo - il modo in cui Wenders riesce a trascinare il pubblico anche meno “istruito” in materia. Bello, con un 3d spesso prezioso.


mercoledì 23 novembre 2011

senza nessun obbligo baciaculistico


Faccio bene a non guardare quasi mai i trailer. Faccio bene a non leggere quasi mai le recensioni. Faccio bene a fidarmi della mia curiosità e andare al cinema così come si dovrebbe vivere, d’istinto. Anche perché avrei rinunciato, in un sabato pomeriggio già uggioso di per sé, a un bel film che dai più è stato venduto come difficile, noioso, verboso e, soprattutto, (vade retro!) filosofico. Certo, il Faust di Sokurov non è un cinepanettone, ma non è di sicuro più complicato dell’ultimo Malick o di Melancholia, ed è pure attraversato qua e là da una lieve, rinfrancante ironia. Allora qual è il problema? Che non c’è Brad Pitt? Che la fica di Isolda Dychaux (diciott’anni meravigliosi) è meno famosa delle tette di Kirsten Dunst? O è il formato da film muto a destabilizzare? Che poi, dopo qualche minuto, ti ci abitui: c’è talmente tanto, dentro quelle piccole inquadrature, che alla fine fatichi a pensarle a 35 mm.


lunedì 21 novembre 2011

lasciarsi un po’


C’è questa scena, lui e il padre in ospedale, il medico parla e parla fuori campo, come il giudice nei primi minuti. Lui sta sbottonando la camicia a quel grosso corpo che un tempo conteneva una persona e adesso poco più di un silenzioso, enorme bambolotto con l’Alzheimer. E mentre il medico parla di prove, di lividi, di ecchimosi, quasi come dovesse fare un’autopsia, lui ha un’esitazione che dura forse due secondi, e con una pietas che ti spacca in due richiude bottone dopo bottone la camicia del padre, gli rimette la giacca, lo porta via. Ecco, prendi questa scena, prendi la parte iniziale, i titoli di coda, e capisci che l’Orso d’Oro a Una separazione ci sta proprio tutto. Ah, non aspettatevi una storia di corna o di pippe esistenziali. Come in A proposito di Elly, Asghar Farhadi ci racconta l’Iran piccolo-borghese, stavolta in contrasto con quello dei derelitti capaci di chiamare il numero verde per sapere se pulire il culo a un malato è peccato.


mercoledì 16 novembre 2011

se viggo mortensen può fare freud, perché michael gambon non poteva fare aragorn?


Lo ammetto: l'unica cosa che mi ha spinto a vedere Un metodo pericoloso è saperlo diretto da David Cronenberg. Ché se non ci fosse stato scritto proprio così, peraltro, non l'avrei mai detto. Un po' gelido melodrammone con tanto di musiche stracciapalle, un po' “ma guarda quant'è frescone, falso e opportunista Jung”, un po' numeri di bravura di Keira Knightley, un po' sesso tristanzuolo (a Cronenberg le scene di sesso proprio non riescono, se ne faccia una ragione, metta delle belle dissolvenze come si faceva nei film di una volta...), un po' Mortensen che ti fa venire voglia di fumare il sigaro dopo dieci minuti, ma - stringi stringi - un corpo estraneo che fatica a emozionare, o anche solo a comunicare.


lunedì 14 novembre 2011

l’ultima bottiglia


Per dirla con il Trap: no say the cat is in the sac. Entusiasmi e feste mi sembrano drammaticamente prematuri. Certo, forse non facciamo la fine della Grecia e questa è cosa buona e giusta. Forse il mondo smetterà di prenderci per il culo. Ma intanto quello non è scomparso dalla vita pubblica come quelli del Caf. Sta lì, cerca alleanze, tra un po’ chiederà ai pensionati, ai cacciatori, per adesso si accontenta dei nostalgici del duce, forse pensa che abbiano nostalgia di lui. Ma mettiamo pure che sparisca, lui e tutta la corte di nani e ballerine. Quanto ci metteremo a spurgare? Quand’è che non vi sentirete in colpa per una battuta un po’ greve, per un commento scatologico, per un apprezzamento a un bel culo? Quand’è che finiranno le crociate per una pubblicità a base di tette o si smetterà di considerare omofoba una considerazione di rara banalità? Quell’essere ha davvero così spostato l’asse del buon senso e del buon gusto o forse vi siete solo ricordati improvvisamente che non solo morirete democristiani, ma presumibilmente anche cattolici?

mercoledì 9 novembre 2011

papà, che vuol dire reprobo?


Avete meno di dieci anni o siete intorno ai quaranta? Sfidate le intemperie, c'è Tintin. Che simpatico son parole grosse, ma a me ha sempre dato quel sapore di giovedì sera, quel Supergulp che resta un unicum nella televisione italiana, Don Chisciotte a cartoni contro il maicbongiorno di turno e prima dell'avvento di Derrick. E poi, regia di Spielberg. Steven, sai il regista di Incontri ravvicinati, Et, Indiana Jones, il produttore di Super8...? Come? Ha fatto anche tre Jurassic Park? Impossibile, dev'essere un omonimo. Comunque. Bello. Bello bello bello Le avventure di Tintin. E tanto, tanto retrò. E per questo richiede una verginità e un senso dell'avventura tutto bambino. Oppure nostalgia. O tutt'e tre, se si è capaci. I titoli di testa sono notevoli, ma quelli alternativi, cazzo, cercateveli su youtube e vi leccherete i gomiti. Scene come quella iniziale, quella nel deserto, la battaglia delle gru o l'inseguimento del falco (a proposito, ancora nessun coglione a dire che Tintin è razzista nei confronti degli arabi?) sono pura delizia. Certo, manca Tournesol. Ma si può avere tutto? No, infatti quello non si dimette.

mercoledì 2 novembre 2011

la fine del mondo nel nostro solito petto


Ho passato buona parte del primo tempo (a parte la scena dell'auto, che intuivo per qualche ragione essere perfetta) a chiedermi se avesse un senso doversi sorbire Melancholia giusto per vedere le tette di Kirsten Dunst. Odiosa lei, odioso il contesto, gente orribile tutta concentrata sul proprio ombelico, Charlotte Rampling che le sentivo già le madaminchie a dire «Eh sì, brava ad avercela col mondo con un marito così», laddove il marito era solo un povero, magnifico priapico svampito interpretato dall'ottimo John Hurt. Per tacere del personaggio di Udo Kier, ché se voglio vedere checche isteriche mi sintonizzo su canalecinque. Poi però il film comincia. Sì, a metà. E allora scopro che von Trier ci ha preso abbondantemente per il culo. Che il suo è un messaggio incredibilmente ottimista. Che gli onanisti mentali, così impegnati a credere o a non credere a qualcosa per nascondere le proprie ubbie, alla fine hanno la peggio. E solo la protagonista, che soffre davvero e davvero risorge, alla fine è quella che muore serena. Un film sorprendente. Nulla di strano che le mie “valvole”, come quelle del protagonista di Una banda di idioti, abbiano giustamente fatto i capricci.