martedì 30 aprile 2013

ritratti di donne velate


Bello tornare al Torino Glbt Film Festival dopo qualche anno. Che poi, a me Da Sodoma a Hollywood come nome piaceva di più. Ma tant’è, bisogna essere internazionali, politicamente corretti e tutte ’ste menate... e Glbt sia. Ricordo ancora quando le proiezioni erano al Teatro Nuovo, più comodo da raggiungere ma più brutto dentro, per non parlare delle puttane anziane che stazionano in zona (c’è nel Guinness un record di zeta all'interno di un post?). Divago? Ok, parliamo di cose serie. Ho visto Aynehaye rooberoo (titolo internazionale Facing mirrors), film dell’iraniana Negar Azarbayjani. Non scappate. Neanche se vi dico che è la storia dello strano rapporto, prima di diffidenza, poi di disgusto, infine di amicizia, tra Rana, una donna il cui marito è in carcere per debiti e che fa la tassista di nascosto per riuscire a sbarcare il lunario, e Adineh, una ragazza che vuole cambiare sesso e fugge da una famiglia che vorrebbe farla sposare. Perché il film, a parte qualche momento didascalico (Adineh che spiega i paradossi della legislazione locale in merito ai transgender o il confronto tra Rana e il padre della ragazza), è un riuscito road movie che racconta senza inutili pesantezze la condizione delle donne in Iran. Tocco registico lieve ma curato, convinta l’interpretazione di Qazal Shakeri (Rana), impeccabile quella di Shayesteh Irani (Adineh), meno incisive le prove maschili. Uscita italiana improbabile se non impossibile.

lunedì 29 aprile 2013

cinque giorni che vi ho perso


Signora mia, che weekend lungo! Iniziato mercoledì pomeriggio, per dire. Vabbè, dal dentista, ma vuoi mettere la soddisfazione di non andare a lavorare? Peraltro continua a non farmi pagare: o è innamorato o mi aspetta un salasso. Da lì, io e la ms abbiamo chiuso il nostro personale Torino Glbt Film Festival con Facing mirrors (ve ne parlerò, non scalpitate o miei implumi!) e poi abbiamo cominciato a fare una cosa che ci viene proprio bene. Ma no, non litigare, mangiare e bere! Abbiamo praticamente smesso ieri sera. D’altra parte il weekend quello ortodosso, quello che comincia il venerdì, lo abbiamo trascorso a casa di questa splendida donna qua e del suo adorabile ciarlierissimo (chissà se ruzzle lo accetta) marito che ci hanno scarrozzato su per il Trevigiano ad ammazzarci di Prosecco e sopressa, e con cui abbiamo fatto chilometri in lungo e largo per la città del santo senza nome (anche senza lingua, visto che è esposta, pardon, ostensa in un’edicola apposita) e della gallina che per stavolta non abbiamo assaggiato. Ché anche lo stomaco ha una sua capacità? direte voi. Di superare se stesso, probabilmente.

lunedì 22 aprile 2013

bona la madre bona la fijia


Che fine ha fatto Meg Tilly? Me lo chiedevo l'altra sera, per poi scoprire che ha smesso di recitare, chissà perché, nel 1995. Rivedevo Il grande inganno (1990), filmone dimenticato, all'epoca sottovalutato dalla critica e scacato dal pubblico, opera terza di Jack Nicholson regista e sequel di Chinatown di Roman Polanski. Nicholson, ovviamente, torna anche a interpretare il detective Jake Gittes, undici anni e un tot di chili in più rispetto a quando lo avevamo lasciato. Se si evitano i confronti, il film è un gran bel vedere. Certo la storia è a tratti ingarbugliata e qualche minuto in meno avrebbe giovato, certo i virtuosismi registici iniziali (ma perché mai Nicholson ha diretto così poco nella sua vita?) si perdono man mano che il film procede, tuttavia si tratta di un post-noir con i controcazzi, qualcosa che per certi versi va oltre l'omaggio di Polanski al genere, lo attualizza, lo sdogana verso temi più moderni e psicologie più complesse. Tante battute da antologia (la sceneggiatura è anche qui di Robert Towne), la gara tra le dark lady Madeleine Stowe e Meg Tilly si conclude pressoché in parità, Harvey Keitel dà una delle sue migliori interpretazioni, il prefinale è inaspettato e struggente.


La recensione partecipa al Jack Nicholson Day insieme a quelle di un fottìo di gente che mastica cinema come e più del sottoscritto. Buona lettura!


venerdì 19 aprile 2013

se non deve più pagarsi la droga, perché?


Anche stavolta è merito vostro se mi vengono in mente delle robe urfide: oggi è grazie a poison che m’è tornato in mente un delirante oggetto cinematografico dal titolo L’etoile du jour. Opera seconda della regista-attrice Sophie Blondy (chissà se anche per il terzo film aspetterà 12 anni, ma francamente potrebbe farne a meno), ha dalla sua un gran cast: innanzitutto Denis Lavant, attore feticcio di Carax che avevo appena ammirato in Holy motors; e poi Tchéky Karyo, Béatrice Dalle, un cameo di Iggy Pop... Eppure è una tragedia già a partire dall’ambientazione: il circo. Che è una roba triste di suo, roba che di più triste mi vengono in mente la faccia di bondi e le giostre del bdcdP con il liscio lento in sottofondo. In più, la trama (storia d’amore e gelosie intrecciate in cui ci scapperà il morto) è poco più di un pretesto per farsi belli a colpi di citazioni (da Méliès a Fellini passando per Chaplin e Freaks), alternando tavolozze di colori e monocromie. La Dalle, quasi irriconoscibile, sembra Moira Orfei grassa, Iggy Pop nella parte della coscienza di Lavant è inqualificabile. Il finale è una delle cose più brutte che abbiano visto i miei poveri occhietti santi.

giovedì 18 aprile 2013

ma precisamente questo kafkia chi è?


Perché tanti recensori di libri-dischi-film debbano sempre scomodare il grande scrittore boemo, possibilmente senza averlo letto, per me resterà un mistero. Che c’entra l’autore de Il processo con La città ideale, opera prima di Luigi Lo Cascio? A mio parere, una beata minchia. Detto ciò, non mi è dispiaciuto. Anzi, aspettandomi di vedere un’altra cosa, più cupa, più “minchiasonolautore”, ho scoperto che per fortuna mi sbagliavo. Purtroppo, però, la storia dell’architetto malato di ecologia che viene accusato (ingiustamente?) di avere tirato sotto con l’auto un notabile senese di ritorno da un puttan tour, se ha dalla sua dialoghi interessanti e una buona costruzione della trama, ondeggia troppo fra dramma e commedia senza trovare un baricentro (il modello – lontanissimo – sembrerebbe essere Elio Petri...) e si chiude con un finale aperto forse poco coraggioso. Cast teatrale di livello (Foschi, Santagata, Herlitzka), perfetta nei panni della madre Aida Burruano (nella vita vera madre di Lo Cascio e sorella di Luigi Maria, l’avvocato traffichino). Lo Cascio non ha mai somigliato così tanto a Ratman.

mercoledì 17 aprile 2013

girare tra le favole in mutande


Spun e Juno Temple che mostra il culo. In verità, più Juno Temple che mostra il culo che Spun, di cui comunque conservo un buon ricordo: beh, insomma queste erano le due motivazioni che mi hanno spinto a vedere Small apartments, terza pellicola di Jonas Åkerlund che ha anche alle spalle un fottìo di videoclip, pubblicità e due film concerto di Madonna. Prima di tutto le cose fondamentali: sì, è vero, Juno Temple mostra il culo e si fa toccare una tetta (coperta), ma se qualcuno riesce a eccitarsi in quei due frangenti farà bene a farsi vedere da uno bravo. Detto ciò, si tratta di un film carino, con un buon ritmo e qualche buona idea, a cominciare dalla caratterizzazione dei personaggi. A trovargli un difetto, considerate le premesse, il finale appare un po’ troppo mainstream. Il valido cast comprende, oltre alla Temple, Matt Lucas (il grasso glabro gaio protagonista di Little Britain, che qui sta mezzo nudo per quasi tutto il tempo e uccide senza volerlo l’orrido padrone di casa Peter Stormare), l’inossidabile James Caan e un ritrovato Billy Crystal. Notevoli i camei di Amanda Plummer e, soprattutto, di un sorprendente Dolph Lundgren.

martedì 16 aprile 2013

essere terra


In fuga da un aborto spontaneo, dalla sterilità che ha causato la fine del suo matrimonio, da una madre con cui non sa parlare, da un dio che non sa vedere, Augusta pensa di essere riuscita a ritrovarsi in una favela di Manaus finché... Il rischio di sòla era altissimo. In un film si può parlare di ricerca spirituale senza far sfrigolare i maroni? Si può raccontare un percorso interiore senza corse in macchina e canzoni stracciacazzi? Si può affrontare il tema del volontariato nel culo del mondo senza buonismo né pregiudizi? Se sei Giorgio Diritti, pare di sì. Ancora una volta, un mefitico trailer piuttosto ammorbante, nel quale vengono esibite senza pietà quelle tre o quattro frasi retoriche di cui si poteva fare a meno, non rende per niente giustizia a un film intenso, da metabolizzare, pieno zeppo di tanta roba. Attraversato dallo sguardo ora dolente, ora radioso, ora figadilegno che non la dà a nessuno figurati a te, di una fantastica (simpatica è un’altra cosa) Jasmine Trinca, Un giorno devi andare è un film dove più delle parole contano le immagini, i silenzi, gli occhi, i corpi, il non detto. Con Diritti, ormai lo sappiamo, il termine “poesia” riferito al cinema non è mai sinonimo di noia, però la pellicola è tosta, impegnativa, a tratti ruvida. Catarsi finale da brivido.

lunedì 15 aprile 2013

peanuts


Il locale è quello in cui mangi il pollo con le mani e puoi buttare le bucce di noccioline per terra, fra ragazzine troiettate che ballano sul bancone e famiglie con bambini che scorrazzano felici, tanto le loro urla si perdono come rumore di fondo tra le canzoni anni Ottanta e il vocìo di un paio di centinaia di persone. Mi ha condotto in questa bolgia dantesca meno terribile di come la si immagini la festa di laurea della DRFM. Potevo mancare? Naturalmente no. Serata piacevolissima. D’altra parte, se varchi l’ingresso e parte Maledetta primavera, se ricevi un regalo inaspettato, se una persona che non vedi da otto anni ti guarda e ti dice che sei sempre più bello, cosa può andare storto?

venerdì 12 aprile 2013

gli è tutto sbagliato, ma è meglio non rifare


Uno dovrebbe saper uscire. A volte di scena, a volte basterebbe anche solo dalla sala cinematografica. Perché, insomma, ti sei fatto una settimana piena al Torino Film Festival, non hai beccato grandi sòle e sei felice come un pupo, ma nel momento in cui si spengono le luci e parte Bobby Yeah, orripilante, macabro quanto inutile e interminabile cortometraggio a pupazzi animati di Robert Morgan, che fa da appetizer al film vero e proprio, devi immaginare che il seguito potrebbe essere peggio. E a seguire arriva Wrong. Che non è peggio, è solo urticante come sabbia nelle mutande. Il regista, Quentin Dupieux, è uno che fa tutto da sé (parafrasando un famoso ex comico genovese «se mi chiedeva una mano, magari veniva meglio»), si è inventato il pupazzo piciu dello spot Levi’s e ha all’attivo un primo film con protagonista un pneumatico assassino di cui ho letto cose carucce. Tuttavia, l’opera seconda è un mezzo disastro. Perché non basta avere fantasia a briglie sciolte se poi non si va da nessuna parte. E la storia di uno sfigato (Jack Plotnick) che perde il cane e lo fa cercare da uno che annusa merde, ha una palma che si trasforma in abete, si ritrova una fidanzata pazza dopo aver ordinato una pizza, va in ufficio (al cui interno piove a catinelle) sebbene sia stato licenziato, se all’inizio è divertente, dopo un quarto d’ora ha l’appeal di una canzone dei Modà. Le ambizioni sono alte (inutile pensare a Gondry, Kaufmann, Jonze...), i risultati molto molto modesti.

giovedì 11 aprile 2013

apocalypse coppola


C’era una volta Francis Ford Coppola. Insomma quello di Apocalypse now, della trilogia de Il padrino, de La conversazione, di Rusty il selvaggio... Già negli ultimi anni ho fatto davvero fatica a stargli dietro, con Tetro e, soprattutto, con Un’altra giovinezza, ma non avevo ancora visto Twixt. Che poi poison, e non solo lei, mi aveva avvisato. Ma io sono curioso e quest’è il risultato: il film è di una bruttezza imbarazzante. Val Kilmer, bolso come non mai ed espressivo come un comò, è uno scrittore alcolizzato di horror di serie b che, prima che la figlia morisse, era una giovane promessa della letteratura americana: indovinate come andrà a finire? Vabbè, non anticipiamo: va a firmare l’ultima sua fatica nell’emporio di un posto dimenticato da dio e, qui, uno sceriffo (che è la cosa più paurosa del film) lo convince a rimanere perché ha una storia per lui. La storia riguarda la morte di un tot di bambini, uccisi da un prete che poi si suicidò, tanti anni prima, per evitare che fossero trasformati in vampiri... Vi siete persi? Anch’io. Il peggio addavenì, perché a questo punto viene fuori lo spirito di Edgar Allan Poe (eh...) a dare una mano al nuovo romanzo e alle indagini. Discreto il colpo di scena nel finale. L’unico raggio di luce giunge da Elle Fanning, meravigliosa giovane vampira in cerca di requie.

mercoledì 10 aprile 2013

mi ha detto mio cuggino


Visto che la ms era febbricitante, ieri sera ho pensato di vedere un film de paura, tanto lei quelli, di solito, li evita come la peste. Ho puntato perciò su Blue Valentine (eh, ridi ridi, che dev’essere davvero micidiale nella sua crudezza...), peccato che fosse senza sonoro. Certo, c’erano i sottotitoli, ma io, i film senza audio, a meno che non siano muti non li posso soffrire. Così, dopo aver cercato un’altra copia del film di Cianfrance, ancora fresco della visione di Killer Joe mi sono buttato su Bug, penultima, malatissima, claustrofobica pellicola di William Friedkin, tratta anche questa da una pièce di Tracy Letts. L’ambientazione non è molto diversa da Killer Joe: una stanza di motel nel nulla, dove Agnes cerca di sfuggire al marito violento appena uscito di galera aggrappandosi a Peter, soldato che ha combattuto la guerra del golfo e s’è fatto quattro anni di ospedale psichiatrico. Un consiglio? Tenete duro, alla fine scoprirete che è un film geniale. Perché qua e là, soprattutto nella parte centrale, vi sembrerà che traballi, che scricchioli, che la recitazione sia inutilmente sopra le righe... Poi, a un certo punto, per gli ultimi incredibili 15 minuti, vi troverete invischiati in un vortice delirante di parole e sangue dal quale uscirete ben dopo i titoli di coda. Ashley Judd, imbruttita nel ruolo della cocainomane che si convince delle teorie complottistiche del suo nuovo partner pur di avere qualcuno in casa che non la corchi di botte, è fantastica. Harry Connick jr., lontano dall’idea di cantante confidenziale che ne avevamo da ggiovani, è un perfetto pezzo di merda, Michael Shannon di secondo nome fa Inquietante, come sempre.

martedì 9 aprile 2013

la soggettiva del pollo fritto


Quello che mi è sempre piaciuto di William Friedkin è il modo di rigirare il coltello in certe ferite, dai dubbi nella fede de L’esorcista alle contraddizioni del mondo queer di Cruising o Festa per il compleanno del caro amico Harold. Mi piace il modo in cui ha reinventato il noir nonché il modo in cui mostra il sesso, lui che, nonostante sia americano, non si è mai fatto tante pippe mentali in materia. Detto ciò, con una perifrasi aggiungerò che l’idea di essermi perso Killer Joe al cinema mi aveva spaccato il cazzo. Poi qualcuno mi ha spiegato che in giro ci sono cose tipo dvd, muli, torrenti e altre meravigliose creature, e così il simpatico quintetto composto da Matthew McConaughey, Juno Temple, Emile Hirsch, Thomas Haden Church e Gina Gershon è approdato nella mia tv. Che dire? Che il film è davvero notevole. Intanto la trama, originale pur nel suo essere stata esplorata mille altre volte, perfetto meccanismo nella sua semplicità. Le sequenze da manuale non mancano: a parte la famosa scena del pollo (minchia che angoscia), tutta la parte relativa al “primo appuntamento”, che pure è tanto teatrale (all'origine di Killer Joe c'è l'omonima pièce del cosceneggiatore Tracy Letts), andrebbe studiata nelle scuole di cinema. McConaughey non è solo fico ma dimostra che alle prese con un buon copione sa essere un bravo attore, Emile Hirsch e Thomas Haden Church hanno l’aplomb di babbidiminchia necessario agli altri due protagonisti maschili. Juno Temple? Un altro pianeta: la sua Dottie è straordinaria, secondo me era da Oscar.

lunedì 8 aprile 2013

la banalità del bere


Sarà la nostalgia, come diceva il poeta (o forse era Sandro Giacobbe?), sarà che le date di ultimo ascolto mi dicono che la musica che gira stamattina sul mio ipod è la stessa che ascoltavo tra un film e l’altro del Torino Film Festival, riprendo la mia (inesistente) rubrica sulle pellicole viste lì e mai uscite in Italia. Come devo avere già scritto, uno dei fil rouge dell’edizione 2012, oltre ai block, riguardava le dipendenze. Al suo secondo lungometraggio (il primo aveva protagonista Nick Nolte alcolista, daje!), James Ponsoldt realizza un film sull’argomento mbriachi piuttosto singolare: quello che sconvolge di Smashed è la “normalità”, il fatto che i due protagonisti bevono praticamente sempre, fin dal mattino sotto la doccia, senza apparentemente risentirne più di tanto, e che, probabilmente, continuerebbero all’infinito finché lei non vomita in classe ed è costretta a fingersi incinta, o finché non si ritrova ad aver dormito per terra tra i barboni dopo essersi fatta di crack con una sconosciuta. Da quel punto di rottura, il film, che fino ad allora è quasi una commedia, cambia di registro, si fa forse meno convincente, ma comunque funziona e arriva a un buon finale secco e senza mediazioni. Buone le interpretazioni di Aaron Paul e, soprattutto, di Mary Elizabeth Winstead. Ah, è bello rivedere Megan Mullally anche fuori dal cast di Will & Grace.

sabato 6 aprile 2013

la farfalla impazzita


Da un po’ non vedevo un film horror, e non l’ho visto neanche stavolta. Detto ciò, contrariamente ai tanti detrattori, a me La madre è piaciuto. Coproduzione ispano-canadese voluta da Guillermo Del Toro e diretta dall’esordiente argentino Andres Muschietti, è triste e commovente come tutte le ghost stories che abbiano un senso, persino straziante nella lunga sequenza finale (sì, ho pianto, e allora?). Certo, il cortometraggio da cui il regista è partito era girato meglio ed era effettivamente de paura, ma le due bambine (Megan Charpentier e Isabelle Nélisse) sono bravissime e inquietanti, il soggetto è ben congegnato, le buone trovate fanno dimenticare i buchi di sceneggiatura. Ah, Jessica Chastain versione tattoo rock è gnocca come non mai.
 

venerdì 5 aprile 2013

man at work


- Ciao, carpentiere A. Allora mi confermi che dopodomani vieni a pittare giù, appendere qua, sistemare là?
- No, sabato lavoro.

giovedì 4 aprile 2013

nostalgia canalla


Ero contento. Davvero, non vedevo l’ora: il ritorno di Almodóvar alla commedia cazzara, quella dei primissimi film, quelli usciti a pioggia dopo il successo di Donne sull’orlo di una crisi di nervi, quelli che, in quel cinema d’essai all’epoca così difficile da raggiungere, si alternavano ai primi von Trier, a Kieslowski, ad Heimat 1 e 2. Quelli scorretti, magari un po’ sconnessi, ultrapop, molto kitsch, divertenti da lacrime agli occhi: fondamentalmente la trilogia costituita da Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio, Labirinto di passioni, Entre tinieblas (no, dai, il titolo italiano no!). Ciò che invece aspetta chi affronta Gli amanti passeggeri è una versione «sciacquata» (ms dixit, e non poteva definirla meglio) di quegli esordi lì: una cosina carina che ti dimentichi già ai titoli di coda (brutti quanto sono belli quelli di testa), il cui peccato mortale è che faccia ridere poco. Ci si illumina d’immenso solo quando spunta Paz Vega, purtroppo ancora una volta relegata a personaggio secondario: Pedroooo, e faglielo fare un film dall’inizio alla fine!

martedì 2 aprile 2013

la sua libertà


S'era fatto un sacco di donne, s'era fatto er gabbio, s'era fatto e basta. Il Califfo ha scritto Minuetto, E la chiamano estate, L'urtimo amico va via, Tutto il resto è noia, Ce stanno artre cose, La nevicata del '56, ma si è spesso sprecato a fare la caricatura di se stesso. Qualche anno fa aveva detto candidamente di essere diventato povero perché s'era mangiato tutti i soldi. Troppo trasparente, troppo puro per l'italietta democristiana che continuiamo a essere.